Abstracts


Parallel Sessions



Abignente Elisabetta, Università degli Studi di Napoli “Federico II”Di duna in duna. Immaginazione delle origini e origine della storia in Thomas Mann e Marguerite Yourcenar
«Profondo è il pozzo del passato. O non dovremmo dirlo imperscrutabile?»: con queste parole si apre il Prologo delle Storie di Giacobbe (1933), primo volume del Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, significativamente intitolato Discesa agli inferi. Prima di addentrarsi nell’imponente riscrittura biblica, è necessario per l’autore compiere, insieme al suo personaggio, un viaggio a ritroso nel tempo fino a giungere a Ur, l’origine e il principio di tutte le cose. Cogliere il mistero che avvolge il passato dell’uomo, poter risalire al momento e al modo in cui la sua esistenza ha avuto inizio, è il fine ultimo di una ricerca alla quale è impossibile sottrarsi, resa sulla pagina dalla ripetizione martellante di termini – i sostantivi «abisso», «scandaglio», «pozzo», i verbi «penetrare», «scavare», «scandagliare» – legati al campo semantico del sottosuolo. Una simile «passione indagatrice» è destinata però ad essere continuamente insoddisfatta, se è vero che ogni inizio che si pensa di aver finalmente individuato si rivela nient’altro che uno «pseudo-inizio» e che, dopo ogni «quinta di dune», lo sguardo si apre su nuove distese di sabbia, potenzialmente infinite. Alcuni decenni dopo, l’idea di inabissarsi in «lontananze inesplorate», di allungare lo sguardo all’indietro giungendo a contemplare paesaggi incontaminati, precedenti alla comparsa dell’uomo, anima un altro prologo: quello de La notte dei tempi, che apre Archivi del Nord (1977), secondo volume de Il labirinto del mondo di Marguerite Yourcenar. La posizione incipitaria, il parallelismo tra genealogia familiare e storia universale, l’attrazione per il primitivo e l’autentico, il viaggio nel tempo come metafora dell’esplorazione dell’inconscio sono alcuni dei nuclei tematici comuni ai due testi. A confermare una possibile relazione intertestuale tra i due prologhi, che non stupisce se si pensa alla grande ammirazione e alla profonda conoscenza che la scrittrice belga aveva di tutta l’opera manniana, interviene la ricorrente ed evocativa immagine delle «dune», metafora dell’illusorietà di ogni ricerca delle radici ma anche traccia di un comune immaginario legato alle ampie spiagge dei mari del Nord.

Agosti Gianfranco, Università di Roma La SapienzaL'invenzione delle origini come forma di legittimazione nella Tarda Antichità
La comunicazione tratterà delle origini mitiche (e inventate ad hoc) di cui le città nella tarda antichità (III-VII sec. d.C.) si dotavano, commissionando opere storiche o poemi a letterati professionisti, che spesso su queste opere costruivano la loro carriera. Attraverso alcuni case-studies si mostrerà come la creazione di un passato mitico servisse come forma di legittimazione dell’identità civica e del ruolo politico delle città.

Agovino Teresa, Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" «Accetto, ma vorrei nascere a caso». Il mito della condizione pre-natale in Procacciatori d'affari
Procacciatori d'affari è un breve racconto contenuto all'interno della raccolta Vizio di forma, «il più trascurato dei miei libri», come lo stesso autore ebbe a dire. Significativamente, esso si trova collocato dopo Visto di lontano a rimarcare la tematica, cara a Levi, di uno sguardo "altro" che analizzi a distanza la vita sul nostro pianeta. Il racconto, sebbene il titolo non ne lasci indovinare da subito la trama, è incentrato sul tema della condizione pre - natale e dell'analisi dei pro e i contro della vita sulla Terra, cui il protagonista S. deciderà infine di aderire senza vantaggio alcuno nascendo, appunto, del tutto casualmente. Vi si aggiunge, così anche l'atavica riflessione sul tema del libero arbitrio nell'uomo. Scopo di questo intervento è dunque la ripresa di un racconto poco analizzato dalla critica contemporanea sviluppata attraverso l'analisi a tutto tondo dei modelli archetipici legati allo stadio prenatale, svolta in primis ad un livello antropologico e filosofico, oltre che, naturalmente, letterario che si può far risalire indietro fino a Virgilio (Eneide, VI, 883 «Tu Marcellus eris») e oltre.

Baracco Alberto, Università degli Studi della Basilicata, The Mythopoeic World of Dog Star Man. Brakhage’s Experimental Cinema and the Untutored Eye
In his seminal manifesto Metaphors on Vision (1963), Brakhage theorised a new kind of poetic, anti- representational cinema which quests for an authentic seeing not yet ruled by experience, education, and culture. This pure vision is expressed through an artistic process which is based on peculiar techniques of film creation that avoid sound and spoken words. Treating film celluloid as a canvas— painting, scratching, and subjecting frames to particular chemical processes—Brakhage worked directly on the film strip in order to arouse pure perceptions in the filmgoer and create a highly symbolic film world. And if it has often been argued that a world exists (and even cosmogonic philosophy) thanks to language, not only because it can be described by language, but also because the world can give itself to us only through language, then Dog Star Man’s world and the philosophy it expresses exist thanks to original, poetic language of vision. What Dog Star Man offers us is a pre-linguistic world which precedes its own words. The paper will focus on the applicability of the concept of film world to non-narrative cinema and, in particular, on the cosmogonic philosophy expresses by Dog Star Man. Both the poetic and mythological dimensions of Dog Star Man’s world give rise to the expression of a non-logocentric philosophical thought.

Baratta Aldo, Università Sapienza di RomaL’archetipo dell’uovo cosmico tra mito, fisica, psicoanalisi e letteratura
Quest’intervento mira ad illustrare l’elasticità comunicativa dell’archetipo dell’uovo cosmico, un mito declinabile secondo contesti cosmogonici molto diversi – dalla fisica moderna alla psicoanalisi di matrice junghiana. L’obiettivo ultimo sarà allora quello di dimostrare l’esistenza di un unico linguaggio cosmologico e interdisciplinare, documentando la persistenza di modelli argomentativi in grado di attraversare dimensioni e ottiche differenti nell’arco di millenni. Il presupposto teorico di quanto si afferma verrà ricavato da una breve lettura della prefazione a Eureka di Edgar Allan Poe, nella quale l’autore sottolinea l’intima relazione fra «Verità» e «Bellezza» – diremmo noi, fra scienza e finzione. L’opera in questione ci viene presentata non tanto in qualità di trattato scientifico da ammirare perché assolutamente accurato, bensì come una dimostrazione della portata estetica che è possibile rintracciare anche nella dimensione più razionale della scienza. Da questo importante insegnamento propedeutico ci muoveremo così a riassumere i caratteri principali dell’archetipo dell’uovo cosmico, a partire dagli esempi più eloquenti che la mitologia comparata ci fornisce – l’Orfismo, la Chāndogya Upaniṣad, la tradizione taoista, etc. Tramite il collegamento intermedio offertoci dalle cosmologie di natura prettamente estetico-poetica – Hildegarde di Bingen, Blake, Yeats, lo stesso Poe – ci sposteremo così nel campo della fisica moderna, analizzando il riuso dell’archetipo del quale è artefice Georges Lemaître in merito alla teoria del Big Bang. Dopo aver discusso il ruolo di questo fecondo archetipo in nascite, per così dire, “esterne”, proseguiremo nell’indagine di cosmogonie di natura “interna”: come dimostrato da importanti studi di Jung e Marie-Louise von Franz, l’uovo cosmico è un’immagine psichica molto presente nei processi di individuazione e di nascita/rinascita della coscienza. A conclusione dell’intervento esamineremo l’utilizzo dell’archetipo dell’uovo cosmico ad opera di Doris Lessing nel suo The Memoirs of a Survivor, nell’ottica di una rielaborazione estetico-narrativa delle teorie junghiane.

Baratta Luca, Università degli Studi di Napoli "Parthenope"“If God had from the beginning of the world made all creatures beautiful”. Origini del mostruoso nella “teologia di strada” della prima età moderna inglese
Le manifestazioni del mostruoso occuparono un ruolo centrale nel paesaggio spirituale della prima età moderna inglese (e più in generale europea), divenendo oggetto di potenti letture allegoriche, ma anche di morbosa attrazione. Il “mostro” (ovvero il corpo animale o umano caratterizzato da deformità congenita) da un lato scardinava i confini tra la norma naturale e gli inquietanti territori del soprannaturale, ponendosi come “segno” divino che doveva divenire oggetto di interpretazione; dall’altro destava ammirata curiosità e si apriva a un’intrinseca possibilità spettacolare.Entrambi questi aspetti (paura e fascinazione, interpretazione e spettacolarizzazione) del mostruoso emergono con straordinaria potenza nelle ballate, nei fogli volanti e nei pamphlet dell’Inghilterra cinque-seicentesca, spesso intrecciandosi strettamente con il problema dell’origine del deforme, del ruolo che al caos organico si doveva (o non si doveva) riconoscere nella genesi del cosmo. Il mostro è una deviazione dal progetto originario del creato, per cui “Nature suffering violence by sinne peruerted her order”, come afferma il pastore William Leigh in un suo pamphlet del 1613? Oppure, come sostiene appena due anni dopo l’autore di un’anonima raccolta di notizie straordinarie, la deformità fa parte dell’ordine della natura fin dai suoi inizi, e serve a mettere in evidenza, per contrasto, la magnificenza dell’opera divina, “as white sets oft blacke”? O addirittura – come sostiene un altro religioso, Thomas Bedford, nel 1635 – i mostri servono a rammentare la bontà di Dio che, malgrado la primigenia condizione colpevole dell’uomo, sceglie di concedergli nella maggior parte dei casi un corpo sano (“it is a singular Mercie of God, when the Births of the Wombe are not mis-formed”)?L’intervento intende identificare, in una serie di documenti destinati ad un pubblico vasto ed eterogeneo, la disseminazione di diversi paradigmi di giustificazione della deformità, in una sorta di “teologia di strada” che non poteva esimersi dalla ricerca di senso di fronte al male inspiegabile: nella dolorosa coscienza dell’interrogativo posto dal corpo eslege, la discussione sulla genesi del mostruoso si intrecciava inevitabilmente con la narrazione delle origini del mondo.

Barbieri Francesco Eugenio, Università degli Studi di CataniaDalle “Metamorfosi” di Ovidio al “Kojiki”, attraverso la Via della Seta. Intertestualità e riscritture del/nel mito delle origini in “Orpheus oder Izanagi” di Tawada Yōko
Tawada Yōko nasce in Giappone ma dopo la laurea si trasferisce in Germania, dove inizia la sua carriera di scrittrice. Sua peculiarità è l’utilizzo di una doppia lingua letteraria: la sua vasta e variegata produzione è scritta in tedesco o in giapponese, e molto spesso le opere vengono (auto)tradotte da una lingua all’altra. Fulcro principale dell’indagine letteraria di Tawada è la migrazione, intesa come movimento in senso lato fra culture. Autrice poliedrica e plurilingue, Tawada spesso utilizza nelle sue storie elementi del folklore giapponese, come per esempio in Inu muko iri (Lo sposo cane, 1993), che viene insignito il prestigioso premio letterario Akutagawa. Tuttavia una delle cifre stilistiche di Tawada è la sua abilità nell'intrecciare sapientemente miti e leggende fra Europa e Asia, creando opere dall’alta originalità. L’interesse di Tawada per la potenzialità intertestuale del mito è evidente soprattutto nel radiodramma Orpehus oder Izanagi. Die Rückkehr aus dem Reich der Toten (Orfeo o Inzanagi. Ritorno dal Regno dei Morti, 1998), nel quale Tawada opera una “Mischschrift” ovvero nelle sue parole una “scrittura mista” dei miti di creazione del Giappone che si trovano nel Kojiki, antico testo fondante della mitologia nipponica, con il mito di Orfeo ed Euridice tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. Tawada individua infatti nelle due opere, seppure scritte in tempi e in luoghi estremamente distanti fra loro, una matrice archetipica comune, il viaggio nel regno degli inferi per riportare in vita la persona amata, che lei sfrutta per creare una terza narrazione, quella che potremmo deXinire una scrittura mista della tradizione europea e giapponese. La circolazione del mito diviene quindi espediente per rappresentare in maniera giocosa e ironica lo sconfinamento di cui si fa protagonista il soggetto migrante, che viaggia con il suo bagaglio di narrazioni da un posto all’altro, mentre la sua persistenza viene utilizzata da Tawada come simbolo della capacità di dialogo che sono in grado di instaurare differenti culture, anche molto distanti geograficamente fra loro. Scopo di questo intervento è un’analisi dell’utilizzo intertestuale fra Asia e Europa dei miti delle origini nell’opera di Tawada, con particolare riferimento al succitato Orpehus oder Izanagi e a Opium für Ovid/Henshin no opium, per studiare come l’autrice crei una “nuova narrazione delle origini” che si adatti al meglio alla situazione di costante movimento e intreccio fra differenti culture nel mondo globalizzato, al contempo problematizzando radicalmente il concetto tradizionale di conXine, purtroppo ancora così pericolosamente in voga oggi dove il dibattito pubblico si incentra sulla “chiusura dei porti” e “la costruzione dei muri”.

Basso Carlo, Università degli Studi di Torino
Intorno alla scoperta delle proprie origini: parodia dell’agnizione nel Persiles cervantino
Nel romanzo postumo di Cervantes, Los trabajos de Persiles y Sigismunda, il tòpos del riconoscimento, elemento tipico del romanzo greco e bizantino, è oggetto di un ribaltamento in chiave parodica. Attraverso l’analisi di tre casi emblematici del Persiles, in contrapposizione alle agnizioni raccontate nelle Etiopiche di Eliodoro, in Dafni e Cloe di Longo e nella Historia de los amores de Clareo y Florisea di Núñez de Reinoso, si cercherà di dimostrare l’intento parodico nei confronti del genere bizantino che, come sempre in Cervantes, si esplicita attraverso una velata e sapiente corrosione dei meccanismi narrativi.

Beltrami Marzia, Sorbonne Nouvelle / MHiC-LabCalvino’s and Queneau’s Cosmogonies: Posthuman or All-too-human Cosmos? In the six-canto poem Petite cosmogonie portative (1950) and in the short stories of the Cosmicomiche (1965, 1967, 1968), Raymond Queneau and Italo Calvino trace their personal cosmogonies, ironically intertwining scientific knowledge, rich imaginaries, and literary experimentation. The paper argues that these works combine macrocosm and microcosm, biological and non-biological histories, while thriving on the cognitive disorientation that derives from the conflation of vastly distant scales. Within this picture, my contribution interrogates the (changeable) positioning of human beings across these scales and scenarios: is the quest for origins always a quest for the original separation, or does it aim to find where one’s origins merge with others’? Does the path of science lead to an augmentation of humanity or to a blurring of its boundaries? As it proposes some answers to these questions, the paper seeks to determine whether, in Calvino’s and Queneau’s narratives of origins, the anthropomorphic perspective is overcome, displaced or perhaps even re-invigorated.

Berardi Elisabetta, Università degli Studi di TorinoQuando gli uomini vivevano sparsi: un prequel alle fondazioni di città
Per i Greci dominati da Roma l’esigenza di narrare - e ri-narrare - il proprio passato politico si fa più urgente, nel momento in cui la narrazione per essere riconosciuta autentica deve essere adeguata alle attese della elite grecofona di età imperiale, che di tale racconto è la prima destinataria. È in questo quadro che nasce, in un sapiente gioco di ri-creazione del testo platonico del Protagora, una nuova versione del mito delle origini della vita associata; gli ‘attori’ consueti, gli dei e gli uomini, mutano in parte ruoli e funzioni: piccoli e grandi scarti della trama del racconto – la natura del dono, il numero dei destinatari - portano a grandi conseguenze nell’esito finale, ovvero chi siano quei pochi a cui Zeus concede di fondare le prime città. L’intervento si propone di indagare le ragioni narrative che fanno di questo nuovo mito un mito di successo.

Bergman Erik, University of HelsinkiThe Aztec Palimpsest: Founding Myths, Gender, and Processual Metaphysics in Chicana/o Fiction
In Aztec cosmology, the moon is the goddess Coatlicue’s daughter Coyolxauqui’s severed head, thrown there by her brother Huitzilopotchli, in a founding myth of Aztec military rule. The moon is not only feminine, but the result (sign) of male domination over women and Aztec power over other peoples. The Aztec empire was founded on gendered power, violence, and subjugation.This and other Aztec narrations of origin have influenced theorists from Gloria Anzaldúa’s seminal Borderlands/La Frontera (1987), Daniel Cooper Alarcón’s The Aztec Palimpsest (1997), to James Maffie’s Aztec Philosophy: Understanding a World in Motion (2014). Notably, there exists a contradiction between the Aztec concept of nepantla, which translates roughly as ‘in-betweenness,’ which is premised on the cosmos and everything in it being in a constant state of flux, and the rigidity of gendered relations in the founding Aztec myths. Maffie’s assertion that Aztec categories (such as gender) should be understood with a distinction between perception de re and de dicto only goes so far in explaining the formidable centrality of gender relations in the myths.This contradiction is evident in the subtext of Sandra Cisneros’s novel The House on Mango Street (1984), for example, in which the character narrator Esperanza struggles against patriarchal gender norms and a more liberating sense of being in-between her community and individuality. Through an analysis of Aztec processual metaphysics in dialogue with the founding Aztec myths, I will discuss how contradictions of essentialized gender roles and the continual flux that is nepantla are negotiated in the novel. This, I will argue, is an example of the Aztec palimpsest (Alarcón 1997).

Bernard Jean-Baptiste, University of ZagrebRéinventions de la Genèse en poésie française du XXe siècle
Pour nombre d’auteurs français du vingtième siècle, le Livre de la Genèse, à défaut d’être un discours de vérité, reste une référence incontournable. Chacun doit ainsi définir dans quelle mesure il prend en compte, adapte ou rejette la représentation biblique des origines et la façon dont elle pose la question de la relation au sacré, à la Terre et au sens, mais aussi celle de la nature humaine (morale ou amorale, déterminée ou perfectible). Qu’elle soit interprétée positivement ou négativement, la Genèse permet aux écrivains de répondre aux défis de notre temps, métaphysiques et identitaires autant qu’écologiques.Nous voudrions premièrement évoquer deux œuvres fondatrices, celle de Saint-John Perse, qui lit la Genèse avec une sensibilité immanentiste pour aboutir à une écriture cosmogonique mêlant mythologies et sciences naturelles, et celle de Jean Grosjean qui, ayant quitté le sacerdoce, cherche à explorer l’intériorité de l’acte divin de Création et ses paradoxes.En seconde partie de la contribution, nous examinerions brièvement leur postérité, leurs préoccupations se développant dans la génération suivante. Lorand Gaspar, poète chirurgien à Jérusalem entre 1954 et 1970, réécrit des passages bibliques à la lumière de l’archéologie et des sciences pour les remettre en cause. Claude Vigée questionne les origines au prisme d’une identité juive marquée par Spinoza et les traumas de l’Histoire. Enfin, Anyse Koltz et Roger Munier s’approprient le récit génésiaque dans une perspective gnostique sécularisée.Cette contribution voudrait ainsi montrer quelques interprétations de la Genèse et l’influence de ce texte comme (contre-)modèle littéraire pour les poètes en quête de sens. Réinventant la Genèse, ils représentent en effet les origines entre mythe et science, théologie et philosophie, promouvant des approches de notre devenir certes différentes, mais toujours engagées, soucieuses de la nature et humanistes.

Berta Luce, Università degli Studi di TorinoDallo sguardo alla parola: ri-creazione della realtà attraverso la scrittura nell’opera di Ramón Goméz de la Serna
«A la ascensión poética puede sustituirse una inmersión bajo el nivel de la perspectiva natural. Los mejores ejemplos de cómo por extremar el realismo se le supera — no más que con atender lupa en mano a lo microscópico de la vida — son Proust, Ramón Gómez de la Serna, Joyce» (Ortega y Gasset, La deshumanización del arte, 1966, 273). Il ricettacolo fondamentale del lavoro Ramón Goméz de la Serna fu la rivista «Prometeo» dove nel 1912 comparve quella che è considerata una delle prime attestazioni del suo nuovo genere letterario: las Greguerias («Prometeo», n°38). Un genere che ha subito un’evoluzione nel corso del tempo, passando da forme prosastiche più o meno lunghe alla forma breve e icastica: forse più che genere inteso come forma testuale, si potrebbe considerare come una forma di sguardo. Per riprendere le parole di Ortega y Gasset, potremmo considerare las Greguerias la lupa con cui lo scrittore guarda la realtà e riesce ad ascoltare il «suono nascosto delle cose»(Total de Greguerias, 1955, xxvii); una lupa fatta d’ «humorismo + metafora» ( Total de Greguerias, 1972, 15) che, al di là della forma testuale in cui si concretizza, ha sempre fatto parte di ogni opera di de la Serna con la medesima funzione: scandaglio, consapevole ri-definizione e ri-creazione del reale e del posto dell’individuo in relazione al mondo. Non si tratta di un fantasioso accostamento di immagini, è una riflessione sul reale per il reale: il processo che viene messo in atto nello sguardo non è solo distruzione e dissoluzione delle convenzioni sociali in un magma-rastro, ma è anche una quête che ha in sé lo slancio per riconcepire e ricostruire il futuro. Questo intervento vuole analizzare le forme che ha preso lo sguardo gregueristico di Ramón Goméz de la Serna, con una particolare attenzione su alcune opere che più emblematicamente riescono a mostrare l’istanza di ri-creazione della realtà come il breve racconto giovanile La caja de Pandora (Morbideces, 1908) e El Rastro (1915).

Bomholt Marius Christina, Universidad Complutense di MadridAn Apocalypse or a Genesis? Why not both?
Although it was published more than a decade ago (when, arguably, things still didn’t look that bad), the eerie scenarios of Alan Weisman’s 2007 book The World Without Us seem all the more plausible the faster we approach the point of no return (if there ever was one) of the current ecological crisis. Weisman, a scientific journalist, offers a detailed account of what would happen if humankind were to disappear—in the wake of a disaster of cataclysmic proportions, perhaps— from the surface of the earth, describing the gradual process of reappropriation of human space by the forces of nature. This portrait of a literally post-human world is grounded in ‘hard’ facts (Weisman recompiles an impressive amount of data from a variety of sources), but the result, though captivating, cannot be regarded as a work of ‘pure science’.This paper aims to evince that at the heart of Weisman’s text, for all its meticulously researched background, lies a narrative that is, in fact, anything but scientific: not only a tale of human demise, but an origin story about a new beginning for the planet, a myth of creation for a world without humanity. The implications of this contention are multiple, ranging from a shift in the literary categories applicable to Weisman’s text—non-fiction vs. fiction—to the observation that the type of gaze the author employs to depict his vision of a post-apocalyptic environment—a floating, de-subjectivized gaze that cannot be attributed to any entity—comes close to what one might call ‘God’s perspective’. Drawing on Heidegger’s notion of going-along-with (Mitgehen) as well as Lacan’s musing on the nature of the gaze, this paper sets out to explore these and other questions, as it attempts to find more general clues to the conundrum of how to imagine our own absence.

Borgogni Daniele, Università degli Studi di Torino“Grateful digressions” and Insinuating Communication in Paradise Lost
In XVII-century England, the customary practice of treating rhetoric and metaphors as all-encompassing ideologemes spurred the elaboration of universal models to make language a more formal instrument, and culminated in Hobbes’ denunciation of tropes and metaphors and Sprat’s celebration of an isomorphic golden age “when men deliver’d so many things, almost in an equal number of words”.Radically re-examining and revising these tenets, already ingrained in Puritan times, Milton has the happy few readers of his epic poem confront the aporias and potentials generated by the inherent compresence of literal and figural in the beginning. As such classical studies as Fish’s and Ricks’s clearly showed, Milton’s language is polysemous and sensuously rich, made by a complex imbrication of designation, signification, and desire, confirming Lyotard’s intuition that discourse encompasses expression and affection as well as signification and rationality. Edenic conversation derives its semantic as well as its suasive force from eros: Adam’s "grateful digressions" with Eve or Raphael are an exercise in right rhetoric and image-making as much as a refreshment to the senses. While designation remains fundamental in Edenic language, the inescapable force of the figural is also highlighted, in particular in the form of living metaphors and conflictual meanings which valorize contingent interpretative processes and activate inferential contents by a complex network of open-ended projections. In this way, Paradise Lost allows the figural element to signify in a lateral fashion, thereby laying the foundations of a renewed form of discourse.In the analysis of this type of figurative language, conceptual conflicts and Conceptual Integration Theory will be used as largely complementary approaches to highlight the implicatures of indirect, insinuating communication and discuss the scope and function of figurative language in a historical period rife with linguistic and hermeneutic issues.

Braccini Tommaso, Università degli Studi di Siena"Ut architectura poesis": costruire il mito della Nuova Roma
Quando l’antica colonia greca di Bisanzio diventa la ‘Nuova Roma’ di Costantino e dei suoi successori, il gracile repertorio di miti che fino ad allora era stato collegato alle sue origini viene profondamente rielaborato per adeguarlo alla dignità di una capitale imperiale. Panegiristi ed encomiasti popolano i primordi della città di figure e vicende ricalcate sulle ktiseisdelle capitali ellenistiche e soprattutto sulla leggende di Roma. Miti delle origini paganeggianti prendono così piede in una Costantinopoli sempre più cristiana, senza che questo venga percepito come problematico. Si mostrerà che, così come avvenne in campo architettonico, così anche in letteratura l’impiego di “spolia” mitologici derivanti da tradizioni estranee all’antica Bisanzio, rielaborati “a freddo” e imbastiti con grande mestiere, costituì un espediente retorico indispensabile per celebrare la Nuova Roma e le sue origini.

Burgio Davide, Scuola Normale Superiore di Pisa“We Make Still by the Law in Which We’re Made”. Creation and Subcreation in Tolkien’s Poetics
My paper examines the relationship between Tolkien’s poetics and the cosmology of Eä, the fictional universe where most of his works are set. This is a particularly promising case study, not only because Tolkien’s writings include, since their earliest stages, a detailed account of this universe’s origins, but because in Tolkien’s poetics the parallel between artistic creation and the Christian myth of God’s Creation is of crucial importance: “we make in our measure and in our derivative mode, because we are made: and not only made, but made in the image and likeness of a Maker” (On Fairy-stories). This analogy, exemplified in Tolkien’s fictional cosmology by the myth of the “Music of the Ainur”, is the fundamental premise for a variety of narrative and descriptive elements in the literary construction of Eä. The idea of the universe as an artistic creation has deep consequences on the epistemic attitude towards the narratives set in it: in order to endow these narratives with the “inner consistency of reality”, Tolkien’s portrayal of his fictional universe underwent endless revisions, which aimed, more or less consciously, at a representation that took into account as many aspects of its geography, geology, metaphysics, biology, history and theology as possible, in order to provide a consistent, believable picture of Eä. My paper will focus in particular, but not exclusively, on the writings of the period immediately following the publication of The Lord of the Rings, a crucial phase of Tolkien’s production, where the attempt to achieve world-building consistency leads to a number of momentuous innovations in the structure of the fictional universe he invented: the analysis of these innovations provides enlightening insights on the methods and tendencies of Tolkien’s creative process.

Camerlingo Rosanna, Università degli Studi di Perugia“Infinite Riches in a Little Room". The Origins of Barabas’s Anti-Christian Gold
My paper will deal with the many layers of meaning attributed to gold in Christopher Marlowe’s The Jew of Malta: From the origin of capitalism to the origin of life itself. In both cases (capitalism and biology), I will underscore how Baraba’s gold assumed aggressively anti-christian values.

Capello Francesco, Università degli Studi di TorinoL’attrazione fatale delle origini. Sul “principio-come-fine” in Freud, Ferenczi, Pavese e Calvino
In Al di là del principio di piacere (1920) Freud ipotizza l’esistenza di “una situazione antica, di partenza, che l'essere vivente abbandonò e a cui cerca di ritornare al termine di tutte le tortuose vie del suo sviluppo”. Egli postula poi che tale situazione primigenia sia l’inesistenza fisica, introducendo quindi l’idea di una ‘pulsione di morte’. Nelle prime pagine del Mestiere di vivere Pavese annota “il mio principio è il suicidio” – e in molti hanno poi ravvisato nel suo mito del ritorno l’affiorare di un istinto mortifero. Lo statuto teorico della pulsione di morte è tuttavia assai controverso, e affiancato in Freud stesso da prospettive alternative. Già nel 1921, ad esempio, focalizzandosi sui fenomeni dell’unione a massa, dell’ipnosi e dell’innamoramento, egli sottolineò non più l’aspetto biologico bensì quello relazionale della capacità (o meno) della mente di separarsi e mantenere la separatezza dall’oggetto primario. Il ‘principio’ a cui tutti tendiamo sarebbe in quest’ottica l’oggetto-madre, non la morte – e il ‘suicidio’ quello dell’esperienza psichica soggettiva, ridotta a esistenza deindividuata. Ferenczi sviluppò queste intuizioni in Thalassa (1924) accostando i motivi fusionali del sonno, del coito e dell’oralità cannibalica. Sono questi temi significativi anche per Pavese, nelle cui narrazioni evidenzierò qui alcuni aspetti chiave legati alla fusionalità. Accennerò anche a come il discorso di Pavese sul mito, letto alla luce del suo suicidio, abbia ispirato alcune considerazioni di Calvino circa il ruolo salvifico della distanza. In particolare mostrerò come nella cosmicomica ‘Il sangue, il mare” sia possibile riconoscere un dialogo sottotraccia con il suicida Pavese – dialogo nel quale Calvino denuncia i rischi della fusionalità incontenuta, dell’idealizzazione del ritorno e del miraggio di affrontare la nostalgia spostandola dal piano della vita psichica a quello dell’agito concreto. Il “genere cosmogonico” emerge in questi autori come implicita trasposizione di un discorso sulla nascita della vita mentale.

Caporicci Camilla, Università degli Studi di PerugiaOf Love, Fire, and Darkness: Origin Myths in Shakespeare’s Sonnets
My talk will focus on the presence of Origin Myths in Shakespeare’s Sonnets. Particularly, I will explore two sonnets that can be considered the myths of origin of the two main addressees of the collection: Sonnet 20, which “narrates” the “creation” of the Fair Youth; and sonnet 127, where the poet explains the origin of the Dark Lady’s darkness. Finally, I will move on to analyse the last two sonnets of the sequence, the so-called “mythological sonnets”, where the poet elaborates his theory of the origin of desire.
Carnevale Davide, Università Sapienza di Roma Cosmogonie e anti-cosmogonie perturbanti: i “miti” lovecraftiani nella rilettura fumettistica di Alan Moore
All’interno dell’ampio bacino tematico del fantastico, definito dalla dialettica contrastiva che vede gli opposti poli di realtà e alterità in perenne collisione, assoluto rilievo è assegnato al motivo archetipico della nascita del mondo e dell’universo, inteso per lo più come occasione di rimodulazione mitopoietica degli assiomi del paradigma vigente. Riscrivere la genesi stessa della dimensione immanente del reale equivale, cioè, nelle strategie narrative del genere, a destabilizzarne le certezze costitutive, sovrapponendo al carattere di univocità da sempre accordatole le infinite possibilità dell’invenzione letteraria. L’opera di Howard Phillips Lovecraft, edificata attorno allo scheletro di una complessa cosmogonia perturbante che lo scrittore del New England lascia appena intravedere attraverso i flebili indizi disseminati nei suoi racconti, rappresenta da questo punto di vista un caso di studio particolarmente interessante, se non altro per la sua capacità di ispirare, in un inesauribile processo di revisione e riutilizzazione di materiale semantico, un’ampia produzione derivativa, sedimentatasi negli anni in un vero e proprio corpus mitologico, testimonianza di una pervasività che trascende gli angusti confini della letteratura, come dimostra il debito contratto verso tale immaginario da cinema e fumetto.Proprio a quest’ultimo ambito guarda il presente contributo, nel proposito di esaminare le modalità con cui Alan Moore – autore tra i più influenti della “nona arte”, sceneggiatore di pietre miliari quali Watchmen (1987) e From Hell (1996) – reinterpreta la materia lovecraftiana nella sua recente serie Providence, opera che proietta su di una elaborata costruzione ipertestuale calata nella realtà storica l’eterogeneo insieme di episodi e suggestioni di cui tale materia è composta, cercandone la sintesi. Approdo finale dell’operazione di Moore è la completa risignificazione della cosmogonia sottesa ai racconti di Lovecraft, rivoltata attraverso gli strumenti del linguaggio fumettistico in un’anti-cosmogonia apocalittica (nel senso etimologico di 'rivelazione'), in cui anche l’inconciliabilità tra realtà e finzione sembra trovare superamento.

Carrascón Guillermo, Università degli Studi di TorinoLe origini novellesche del genere bizantino in Spagna (romanzo, novela, comedia)
Sulla scia delle opere classiche del romanzo greco (Eliodoro e Achille Tazio), nel XVII secolo nascono i capolavori del romanzo spagnolo bizantino d’avventure ma anche un sottogenere della comedia nueva spagnola. Nello stesso periodo in cui si diffonde il romanzo greco diventano popolari in Spagna le novelle di Boccaccio, Bandello e Giraldi Cinzio in alcune delle quali è possibile rintracciare delle caratteristiche del genere chiamato bizantino. Un confronto fra i generi narrativi e drammatici italiani e spagnoli può permettere di delimitare meglio in che terreno affondano le radici i romanzi bizantini di Lope de Vega e Cervantes.

Casella Stefano, Università IULM, Milano“Big Bang o Altro": Dell'Inizio e della Fine nella Poesia di Eugenio Montale
Nella cosiddetta “seconda stagione” della poesia di Eugenio Montale, da Satura (1971) ad Altri Versi (fine Anni Settanta) il tema dell’Origine e, conseguentemente, della Fine—dell’Universo, del Mondo e dell’Uomo—è pervasivo, per non dire ossessivo: esso è presente in oltre una cinquantina di liriche nonché, attraverso svariati accenni, allusioni, ed echi en passant anche in vari altri testi.Il premio Nobel genovese affronta (col neppur tanto malcelato—o forse calcolato—intento anche di esorcizzarle) queste “overwhelming question[s]” dal punto di vista teologico e religioso, filosofico ed etico, psicologico ed esistenziale, con modalità espressive (linguistiche e retoriche) particolari e personalissime. A partire dalla tradizione religiosa dell’Occidente, la giudaico-cristiana (con prevalenza della dottrina cattolica e relativi dogmi—compresi i Novissimi—ed eresie: tutto ciò a motivo di precise ragioni biografiche di formazione personale fin dalla sua fanciullezza), il “vecchio” Montale si confronta con questi temi attraverso precisi atteggiamenti psicologici e molteplici registri espressivi, che spaziano dall’ironia alla parodia, dal grottescoall’irriverente, dal demitizzante al dissacrante, con qualche tocco di nostalgia e di rimpianto.Stoica accettazione o smarrimento; superiore distacco o profondo coinvolgimento; antidogmatismo ed eresia; struggimento o/e disillusione: quella di Montale è fino all’ultimo una “lotta con l’Angelo” (ed eventuale relativo “Mandante”) senza esclusione di colpi. Le sue [del poeta] “armi, / poche ma durature” (Satura II: ii, “Di quel mio primo rifugio”) sono innanzitutto la parola, espressione di lucida intelligenza e di un pensiero rigoroso ed al contempo scanzonato ed ironico/auto-ironico, nonché l’infaticabile ricerca che mai cessa di porsi interrogativi avvalendosi di varie forme di conoscenza ed analisi (teologia, filosofia, scienze). Un tour de force intellettuale e verbale da cui Montale esce a testa alta, qua homine e qua poeta.

Cattaneo Angelo, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma“The world is created by God”: The Jesuits and the Preaching of the Christian Doctrine of Creation to their Buddhist and Confucian Interlocutors in Japan (1549-1614)
From circa 1542 to circa 1640, over the course of about 100 years, in the context of the pressing events that brought to the military and political unification of the Japanese kingdom by Oda Nobunaga (1534-1582), Toyotomi Hideyoshi (1536-1598) and Tokugawa Ieyasu (1543-1616), at the time of the arrival of the first Europeans, to the eyes of cultural historians Japan appears as an extremely interesting laboratory of cross-cultural, social, linguistic, religious and philosophical interactions. During this relatively short period of time, small communities of European merchants and of Catholic missionaries mutually experienced very heterogeneous forms of cross-cultural interactions with Japanese political, mercantile, military and religious communities.In this context and in the framework of competitive interactions developed by Jesuit missionaries with both Buddhist monks and Confucian literati, the preaching and explanation of the Christian Doctrine of the Creation played a relevant role within the interactions with the Japanese communities. The comprehension of the Christian Deus as Creator and its significance within the theology of the Creation, was one of the pillars, together with the Salvation and Resurrections, of the Christian message transmitted to Confucian and Buddhist people.Alessandro Valignano’s, Pedro Gomez’s, Fucan Habian’s, Carlo Spinola’s explications of creation stand both at the center of their criticism either of Confucianism, Buddhism, or Shinto, while at the same time being one the pillars of their transmissions of the Christian message. According to Jesuit missionaries, Confucianism, Buddhism, or Shinto were likely incapable of explaining the foundations and origins of the mundus, the universe. Also for this reason they were regarded intellectually poorer and incapable to lead human beings to salvation. For this reason, the notion and explanation of the Creation – in the form of a scholastic-Aristotelian theory – became one of the three pillars of the selective Christian theological and philosophical discourse brought forward within the Jesuit missions of Japan. To explain the Christian doctrine of creation, the Jesuits mobilized also cosmography and world cartography. Through the analysis of textual and visual sources collected in Europe and Japan in the framework of the collective research project my analysis will shift the focus from anachronistic interpretation of alleged “Jesuit science” to the theological relevance of cosmology and cosmography in missionary contests and civilizations that ignored the very concepts of God creator and the world as creation and its consequences and implications.

Cattaneo Gianmario, Università degli Studi di TorinoBetween Myth and Allegory: Pagan Philosophers facing the Biblical Narrations of Origins
Between the 2nd and the 4th centuries, because of the wide spread of Christianity, a huge polemic between the Pagan philosophers and the Christian intellectuals exploded and involved the main political and cultural figures of that time. For instance, Origen wrote the famous treatise Against Celsus, against a pagan philosopher who composed an anti-Judaic and antichristian work in the middle of the 2nd century. According to Cels. 4.36, Celsus criticized the narration of the origins in Gen 1-2 because, just like Hesiod, it is just a myth and is the most unrefined and unpersuasive account he has ever heard. So, Origen discusses the relationship between Hesiod and Moses, and states that, if Hesiod is to be interpreted allegorically, Biblical texts too should be allegorized. Whilst it does not seem that Porphyry devoted a section of Contra Christianos to the first part of the Genesis, in Contra Galilaeos Julian the Apostate compares the cosmogony Plato proposed in the Timaeus with the biblical cosmogony (Gal. fr. 9-10 Masaracchia). In this case, the critique is more focused on the philosophical systems, and Julian shows that the Platonic system is far superior to Moses’ story of a limited creative God. Not only Celsus and Julian, but also other less-known authors put in comparison the different cosmogonies. For example, in Contra Manichaeos Alexander of Lycopolis says that the converted pagan intellectuals employed classical myths and metaphors in order to illustrate the main features of Manichaeism. In this paper, I will focus on the structure and the content of Celsus and Julian’s critiques and their use of the ancient sources, and then on the way Origen and Cyril of Alexandria replied to them, providing the first overview on the polemic between Christians and pagans regarding the narrations of the origins.

Cavaglion Alberto, Università di Ljubljana e TorinoChair - Panel: Primo Levi - The Great Mosaic of Origins

Cecconi Linda, Università degli Studi di MacerataLe narrazioni del Popolo del Sole: l'origine nei miti cosmogonici aztechi
L’intervento ha come obiettivo quello di analizzare il tema delle origini nella cultura azteca attraverso l’analisi di alcuni tra i più importanti miti cosmogonici che vedono l’universo come il prodotto di un susseguirsi di cinque epoche, ciascuna terminata attraverso calamità naturali e ciascuna provvista di un proprio sole, scaturente dal sacrificio di una delle divinità principali del pantheon azteco. Tali miti saranno affrontati a partire da alcuni testi fondamentali – utili a comprendere come l’origine delle epoche, nell’universo azteco, sia sempre collegata a creazioni accidentali, distruzione e rigenerazione – quali: la Historia de losmexicanos por sus pinturas di Andres de Olmos, la Leyenda de los soles e la Histoire du Mechique. Attraverso l’analisi di questi testi, con le loro differenze e analogie, si evidenzierà la concezione metafisica fondamentale del pensiero azteco, che vede l’origine del mondo come espressione della potenzialità di una divinità duale, priva di origine e temporalità, che racchiude in sé ogni dualità; la quale viene rappresentata nella mitologia azteca come una coppia primigenia – formata dalla componente maschile, Ometecuhtli, e da quella femminile, detta Omecihuatl – che è alla base della creazione del mondo, delle dinamiche che lo governano e persino delle stesse divinità adorate dagli aztechi. Dopo aver analizzato tale questione ci soffermeremo in particolar modo sul mito della creazione dell’uomo, che vede la discesa della divinità Quetzalcoatl nel Mictlan (inferno nella tradizione messicana) con lo scopo di recuperare le ossa degli abitanti del vecchio mondo (e quindi del quarto sole) così da poterle portare nel regno degli dei, il Tamoanchan, per dare origine ad una nuova umanità attraverso il sacrificio delle altre divinità; tale sacrificio sancisce un patto di reciprocità tra dei e uomini, i quali saranno poi a loro volta chiamati al sacrificio così da garantire la vita degli stessi dei.

Cervelli Filippo, SOAS University of LondonThe Quest for Origins: On the Scale of Periphery and Centre in the Magical Realism of Gabriel García Márquez and Kazushige Abe.
In his essay Modernism and Imperialism, Fredric Jameson suggests that modernism arose when colonial expansions created an unfathomable gap between the periphery (the colonized) and the centre (the colonizer). However, Stephen Dodd argues that modernism also “open[ed] up an alternative and empowering vision for those living in the colonized territories.” While the literary discourse on modernism relates to a specific time, this paper builds on this dichotomy of visions of centre and periphery, and of their role in and towards history, to expand on the relationship between scale and origins in two works in Latin American and Japanese literature: One Hundred Years of Solitude (1967), by Gabriel García Márquez, and Sin semillas (2003), by Kazushige Abe. Although distant in time and in socio-historical backgrounds, both works employ magical realism to tell the origins and the (hi)stories of peripheral realities in contrast with a “centre”, be it the government army for the small village of Macondo in Márquez, or the history of the Tamiya family in the provincial Jinmachi, in northern Japan, so remote from the central Tokyo. Through a dialogic close reading of the novels, this paper sheds light on how the insertion of fantastic elements in a type of historical narrative serves as prism to originate countless stories that challenge notions of what constitutes official history and that, ultimately, use the peripheral and its difference in scale to articulate an epistemological and representational multiplicity of the original space of the home. Finally, the paper furthers the understanding of magical realism by introducing a comparison with the Japanese literary tradition, one that is outside of the Latin American context with which this style is usually associated.

Codena Serena, Università degli Studi di PaviaQui n’a pas son Minotaure? de Marguerite Yourcenar: à l’origine d’une civilisation de monstres
La production littéraire de Marguerite Yourcenar est imprégnée de mythologie, surtout hellénique. Le retour à l’origine, à la fable ancienne, au mythe et à la légende permet à l’auteure d’en exploiter le caractère universel, valable dans tous les lieux et dans tous les temps et capable de relier les hommes entre eux. Parmi ses ouvrages les moins connus, les trois articles nommés Mythologies, parus dans la revue « Les Lettres Françaises » en 1944-1945, présentent un certain intérêt, puisqu’il s’agit des premiers essais sur le mythe : notamment, une étude sur la famille criminelle des Atrides, une autre sur le thème du sacrifice dans la légende d’Alceste et, finalement, une sur Thésée, héros civilisateur et tueur de monstres. Dans ce dernier l’écrivaine s’interroge sur les origines pré-grecques de ce mythe et découvre certains rites de la protohistoire liés au monstre cannibale, derniers vestiges d’une civilisation disparue qui suscite la méfiance de la Grèce et qui se caractérise par des divinités primordiales et horribles. Néanmoins, ce qui retient le plus l’attention de Yourcenar est la figure de Thésée, destructeur de monstres et fondateur d’une nouvelle civilisation, la défaite du minotaure symbolisant métaphoriquement l’anéantissement d’un monde ancestral et mystérieux auquel la civilisation grecque s’oppose.Cet article sera la base de la préface d’une pièce théâtrale, Qui n’a pas son Minotaure ? C’est un mythe des origines que Yourcenar s’efforce de renverser dans sa pièce : elle prend le paradigme du héros civilisateur pour le transformer en homme médiocre qui n’arrive pas à fonder une civilisation, mais qui se transforme presque en monstre dévorateur, le même monstre qu’il aurait dû détruire. Cette pièce parodique représente donc Thésée comme un anti-héros et, en s’inspirant aussi des événements de la Seconde Guerre Mondiale, montre comment la médiocrité et la lâcheté des hommes peut donner origine à une civilisation de monstres.

Combina Alessandro, Università degli Studi di TorinoThe Sun also Rises tra pragmatismo e tensione simbolica: archetipi di un modernismo sui generis
Quando viene evocata la scrittura di Hemingway saltano immediatamente agli occhi uno stile schietto e oggettivo, materialismo, fisicità e un approccio violento e burrascoso nei confronti di un’esistenza concepita come azione e avventura. Caratteristiche queste indubbiamente ravvisabili nelle opere dello scrittore statunitense, eppure nell’approfondirne la figura, è sempre opportuno saper discernere tra l’uomo e il mito, tra ciò che è ben visibile in superficie e ciò che si cela in profondità, nascosto quasi come qualcosa di cui vergognarsi sotto il behaviourism e lo stoicismo. In realtà, nonostante l’ideologia machista si sia imposta nell’opinione comune come interpretazione dominante del corpus hemingwayano, fin dai primi studi la critica non ha mancato di evidenziare una celata tensione simbolica e un’intertestualità nascosta (Baker, Young). Ciò che mi propongo di fare nel mio intervento è, quindi, di analizzare il primo romanzo dello scrittore statunitense The Sun also Rises che Philip Young ha definito “the Hemingway’s Waste Land”, proprio per questa tendenza sotterranea cupa e introspettiva dello stile hemingwayano che, secondo Young, farebbe coincidere Jack Barnes con l’eliotiano Re Pescatore. (Ernest Hemingway: A Reconsideration, 1952) Come si intuisce dal riferimento al Qoelet nel titolo e dagli schemi mitico – antropologici nascosti tra le maglie di una tessitura formale e strutturale solo superficialmente chiara, ciò che emerge prepotentemente in The Sun also Rises è la disperata volontà di rigenerazione e purificazione: la rinascita dalle macerie della Grande Guerra si avverte come bisogno esistenziale, come necessità di una nuova origine all’insegna della ricerca di uno scopo come moderno Graal, di un saper vivere che porti a uno stato di completezza. Così riflette il protagonista del romanzo durante una delle sue notti insonni: «I did not care what it was all about. All I wanted to know was how to live in it». (The Sun also Rises, 1926).

Consolaro Alessandra, Università degli Studi di TorinoSelf-landscape in Adivasi Creation Myths and Narratives from Jharkhand
In this paper I explore the construction of ‘Adivasihood’ in Jharkhand (India). Adivasi-s (variously labeled in social sciences as tribe, indigenous, aborigine, autochthon) are currently subordinate and marginalized groups that are struggling to represent oneself in the face of centuries of representation by dominant others. Addressing the current Adivasi dilemma between being and becoming, I will show how these discursive phenomena are deeply embedded in changing landscapes. Despite the claims to autochthony, claims to the ‘essential elements of Adivasi identity’ by the Adivasi intelligentsia of Jharkhand are historically constructed and have changed over time. The Sanskritic and colonial representations of tribes as savage, and the colonial difficulties in classifying tribes on the basis of race, language and territoriality are well known. I will focus on less studies myths and foundation narratives that are crucial in the present discourse on Adivasi indigeneity.

Cravero Mattia, Università degli Studi di Torino «In nome del cielo». Primo Levi e le cosmogonie degli antichi L’intervento si propone di capire cosa Primo Levi intendesse quando, narrando la ricostruzione della Polonia dopo la caduta di Auschwitz nella Tregua, citò il «Caos primigenio», gli «esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi» e i loro «moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera», sigillando il tutto in una fondamentale similitudine: «come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi». Comparando questa descrizione al Chaos esiodeo, allo Sphairon empedocleo (con la lotta tra Amore e Odio), ai lucreziani semina rerum (cioè gli atomi turbinanti nel loro clinamen) e alle ovidiane formas mutatas, si scoprono nuovi possibili legami intertestuali dell’opera primoleviana con la letteratura classica.


Daija Pauls - Kalnačs Benedikts, University of LatviaThe Textual Genesis of 19th-Century Latvian Literary Culture in the Context of European Literature
Our investigation takes as its starting point a major event in the history of Latvian letters, the publication of poetry volume “Dziesmiņas” (Little Songs, 1856) by Juris Alunāns that triggered the rise of Latvian literary culture. The narration of origins was supported by the first newspaper edited by Latvians, “Mājas Viesis” (Home Visitor), as well as the establishment of the first corporation of Latvian students at the Tartu University, Estonia, also in 1856. In our paper we discuss the cultural background of mid-19th-century Latvian intellectuals who were raised on the tradition of German, including Baltic German, culture, and the strategies this generation applied to strengthen their role on the cultural scene. The second half of the 19th century was a crucial period of change revealing conscious efforts of the first Latvian nationals to re-position themselves in local political and cultural contexts as well as to put them on larger geo-political and mental maps of Europe. These attempts often went hand in hand. While the growing middle class looked for possibilities to limit the dominance of the Baltic German elite, still hugely influential in the area despite the territory’s political affiliation with Russia from the 18th century onward, writers (as well as linguists and historians) set it as their goal to demonstrate that Latvian language and culture could provide sufficient possibilities for the expression of individual experience and collective identity. Translations and originals often coexist in Latvian poetry volumes of the time; and there are attempts to specifically demonstrate that translations from languages such as Greek, Latin, and German, are possible, while demonstrating the ability of Latvians to express similar thoughts as in other languages. This position indirectly confirmed the growing awareness of the semi-peripheral status of Latvian society and letters as well as originated an explicit wish to contribute to change.

Daniele Antonio Rosario, Università degli Studi di FoggiaL’origine e la creazione: Vizio di forma negli Anni del Postmoderno, tra scienza e fenomenologia della narrazione
Alcuni brani di Vizio di forma, dietro lo strato denotativo della narrazione scientifica, racchiudono motivi e contesti riconducibili al paradigma dell’origine e delle origini: il “vizio di forma”, l’errore e l’anomalia dei “piani terrestri” preludono a una nuova origine o alla messa in discussione di quella storica. Lo spettro tematico procede dai meccanismi della nascita umana – osservati, discussi o ridiscussi a partire da un fattore anomalo (I sintetici) – alla natura primigenia di talune civiltà (Verso occidente); dalla ri-nascita nella struttura umana di forme aliene, una esperienza di origine rigeneratrice della storia dell’uomo (Procacciatori d’affari), agli aspetti della fecondità femminile (Lumini rossi); dalla nuova genesi di prospettive di vita (Vilmy) a creature che reificano il carattere umano (Psicofante) e a fenomeni che distruggono per prospettare una nuova origine (Recuenco: la Nutrice). E così via. Questa parte della narrativa leviana, inoltre, va considerata anche sul piano intrinseco della scrittura. Tra Storie naturali e Vizio di forma c’è un passaggio decisivo nell’approccio tematico e stilistico poiché, soprattutto nella seconda, Levi predispone un importante tappeto semiotico fondato sul mutuo rapporto di scienza e scrittura, racconto e coscienza delle leggi naturali. Nasce una vera e propria “fenomenologia della narrazione” con la quale Levi offre un contributo originale all’interno di una fase della narrativa italiana che vira in direzione della rivoluzione elettronica. Vizio di forma lavora sulla legge fisica, sui comportamenti e sui conflitti di entità viventi; confeziona intrecci narrativi che risultano funzionali alla comunicazione di organismi con volontà “sintetiche”, per una riflessione anche su temi come il cibo e la sua distruzione, sulle masse informi o increate perché prive di anima, sull’acqua, origine della vita, che deteriorandosi “genera morte”. Vizio di forma va valutato anche sul piano della sua composizione scrittoria, come momento in cui la sua natura narratologica contribuisce alo sviluppo della materia scientifica.

de Fusco Giacomo, Paris 3, Sorbonne NouvelleSulla mancata equazione tra autore e origine: Storie di “doppi” e di “scale” nell’autofiction
Nel genere dell’autofiction, il già complesso rapporto tra intenzione autoriale e origine dell’opera si complica ulteriormente. Per ritornare su un caso emblematico, quantomeno in ambito italofono, basti pensare al personaggio-Walter nei romanzi di Walter Siti : nonostante ce ne vengano sottolineate le differenze anagrafiche rispetto all’autore, e benché i suoi stessi comportamenti subiscano profonde modifiche da un libro all’altro - conformemente ad una progressiva ma altrettanto profonda mutazione di stile e di registro -, agli occhi del lettore la sua presenza ed i suoi progetti, anche e soprattutto di natura letteraria, guadagnano più pertinenza, se non addirittura più “consistenza plastica”, rispetto a quelli del modello in carne ed ossa da cui derivano. Qui come altrove, il doppio dello scrittore, in ciascuna delle sue possibili declinazioni, assume i contorni dell’autore implicito delle storie di cui è protagonista (e che ci racconta). Analogamente a quanto accade, per esempio, con gli eteronimi di Pessoa, un tale schema suggerisce spunti di riflessione che meriterebbero di essere discussi, facendo ricorso a categorie estetiche ed interpretative desunte sia dalla teoria della ricezione, sia dai più recenti studi condotti in ambito cognitivista. Che tipo di relazione intrattiene l’autore con le sue (auto)rappresentazioni? In che modo una tale relazione può influenzare la produzione dell’opera? È corretto parlare di una frammentazione (o frattalizzazione) identitaria, di un rapporto scalare di 1:2? In altri termini : se gli alter-ego, i doppi, le caricature dell’autore reale possono risultare, pirandellianamente, più identificativi ed emblematici della figura dell’autore rispetto all’autore stesso, è legittimo servirsene per garantire, paradossalmente, l’unicità dell’autore, ovvero una maggior oggettività nel definirne e restituirne i tratti? È quanto si cercherà di approfondire in un intervento volto ad introdurre nella discussione il gioco prospettico del destinatario – inteso quale lettore, pubblico, uditorio, insomma “entità irriducibilmente collettiva”.

de Vivo Erika, Università degli Studi di TorinoAmidst Creation and Relations: Sami myths of origins from a diachronic always perspective
This contribution aims to examine the myths of origins among Sami people before and after the religious shift from the Sami indigenous sets of knowledge to Christianity. Colonial practices heavily affected Sami peoples and very little is known of Sami cultures before the forced conversion to Christianity. Since Sami cultures had long been primarily oral, very few sources on Sami non-Christian worldviews exist today. Most of them have been produced by priests and clergymen who were engaged in active missionary activity. Albeit being inherently biased, these accounts are among the most important sources on Sami non-Christian cosmologies. Ancient myths have survived in the priests’ records but also as fragments of poems or through storytelling and later in accounts written by the Sami themselves. For the little that is known, it is apparent that Sami non-Christian worldviews were inherently different from the Christian ones. In stark contrast to the Genesis, the Sun and the Earth were central elements of non-Christian Sami worldviews and the Sami considered themselves as their direct descendants. The Origin was as much through creation as through kinship relationships(everything descended from the supreme ancestors and the Sami were no better than other creatures or being). These different cosmologies, which, for a few centuries coexisted within the same communities, reflect different sets of values, different society norms and foster different and culturally specific attitudes. In some cases, ancient myths have been reframed through Christian categories. I will examine in detail one of such cases: the origins of the Ulddat, the underground people living close to Sami dwelling places. The Ulddat belong to the Sami non-Christian worldviews and, through the centuries, they have been incorporated into a Christian framework, which made them the descendants of the hidden children of Eve. I will then examine the origin of joik (a form of chant) according to the Christian understanding of this distinct cultural practice. Through these examples, I will show how Christianity either incorporated or demonized non-Christian elements of Sami everyday life.

Derouiche Maroua, Université de StrasbourgGrandeur et misère des Fils de la sirène dans les récits napolitains de Dominique Fernandez
« Par mythe, il faut désormais entendre […] non plus une fable ornementale, mais un acte fondateur. Chaque peuple confie à ses mythologies le soin de lui révéler les modèles exemplaires de toutes les activités humaines significatives : l’amour et le mariage, la naissance et la mort, l’agriculture et l’art. Avec cette clé simple mais efficace on peut entreprendre le voyage autour du monde ». C’est ainsi que Dominique Fernandez définit le mythe et c’est à travers ce même prisme mythique que se conçoivent ses voyages dans l’Italie méridionale. S’inscrivant dans le sillage de Stendhal, l’œuvre de Dominique Fernandez s’offre comme une invitation à revisiter l’Italie du Sud et à y dénicher l’importance du coefficient mythique tout en étant sensible au figement temporel caractéristique de la région. Ponctués par les références mythiques, les pérégrinations italiennes de l’écrivain sont un voyage dans le temps et dans l’espace. Porporino ou les mystères de Naples, par exemple, ne peut pas être appréhendée en dehors du mythe orphique. A travers ce roman aux accents hautement lyriques, l’auteur nous fait voyager dans le Conservatoire des Castrats de Naples sous le règne du roi Ferdinand. Les castrats représentent la résurgence contemporaine du mythe d’Orphée mais ancré au sein du royaume napolitain, ils sont surtout présentés comme les fils de la sirène Parthénope. Créature surnaturelle « capable d’envoûter par la magie de [sa] voix », Parthénope incarne le pouvoir irrésistible du chant napolitain perpétré par les castrats mais elle est également à l’origine du culte de l’échec auquel se vouent les Napolitains. Désormais, pour Fernandez, le prestige lyrique napolitain et la misère économique sont liés à ce double héritage.C’est sur cette alliance mystérieuse entre « les dons les plus rares et l’effort toujours infructueux » des Napolitains que nous comptons nous intéresser dans le cadre de ce travail.

Di Castri Maria Beatrice, Liceo Statale "N. Machiavelli" di FirenzeUn mito classico per l'ebreo a cavallo
Le plurime ascendenze letterarie, in cui Levi ibrida, con gusto rabelaisiano e parodico, la Genesi con le reminiscenze classiche fino all'immancabile Commedia di Dante, rendono la Quaestio de centauris, racconto tra i più riusciti e complessi delle Storie naturali (1966), un bel “centrifugato” della koiné culturale cui Primo Levi appartiene; inoltre, il mitologema del Centauro – cui seguiranno quelli ebraici del Golem e di Lilìt – ben si salda ad altri nodi della letteratura testimoniale di Levi e anche ad altri temi ricorrenti nella sua narrativa di invenzione. Se, a partire dalla pubblicazione della raccolta, il centauro diventa, su sollecitazione di Levi stesso, l'immagine anche pubblica dell'autore – scrittore e chimico, ex deportato e cittadino integrato, ebreo e italiano, testimone eccezionale di Auschwitz e scrittore di fantascienza (nella fattispecie, Primo Levi/Damiano Malabaila), che combina robusta formazione classica al liceo D'Azeglio di Torino ed eredità dell'ebraismo, si esprime in italiano e in dialetto piemontese, vive la coesistenza tra sapere astratto e la manualità tipica del chimico –, nel racconto si può tuttavia ipotizzare un ulteriore sdoppiamento dell'autore: Levi si identifica in parte (per le ragioni suddette) con il centauro Trachi, che, da creatura docile, impazzisce di gelosia e, riscoprendo le pulsioni primigenie, fugge lontano; ma anche con il narratore-testimone, intradiegetico alla vicenda e tutt'altro che estraneo alla sua evoluzione: e tale sdoppiamento complica l'esegesi del racconto, che, assurge a sintesi straordinaria di diversi elementi aggregati nella personalità dell'autore, condotta da un lato con magistrale ironia e autoironia, che coinvolge quasi la stessa sua facies di testimone, in una varia partitura di toni e di stili, dall'altra con serietà e impegno etico; e nel rielaborare lacerti del suo vissuto di ebreo emarginato, perseguitato, sopravvissuto ed errante, egli combina la «salvazione del riso» alla «salvazione del capire».Levi Di
Di Meo Antonio, Independent ScholarLe “origini” come “attrattore” in Primo Levi
Nell’opera di Levi è ripetutamente presente – in maniera implicita o esplicita o anche allusiva – una sorta di attrazione interna nei confronti del problema delle origini, che potremmo definire col termine fisico-matematico di “attrattore”, ovvero di un insieme verso il quale evolve un sistema dinamico (in questo caso però psicologico e letterario) indipendentemente dal punto di partenza. Esso coinvolge sia il suo ebraismo sia la sua formazione scientifica, linguistica e morale (Il sistema periodico, Pagine sparse). In effetti i continui rimandi fra dimensioni storico-naturale, storico-sociale e mitica rendono evidente come tale problema costituisca un nucleo di fondo dell’approccio di Levi ai differenti aspetti trattati nelle sue opere. Le origini e l’ordine della materia (Ad ora incerta) sono rese coerenti con quelle morali che Levi desiderava possedere ed entrambe col suo essere ebreo sebbene non credente (Il sistema periodico). La stessa riflessione sulla comunicazione interumana – nel Lager e fuori – viene talvolta riferita, sebbene in modo originale, all’antico mito della torre di Babele e lo stesso si può dire della comunicazione scientifica (Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati). In entrambi i casi la dimensione etimologica e anche simbolica ricopre un ruolo primario. La dimensione simbolica, inoltre, viene considerata da Levi come qualcosa che rivela – se compresa – il significato originario di fatti ed eventi che nella loro versione bruta sono poco o scarsamente rivelatori (L’altrui mestiere), secondo la più comune definizione di simbolo, cioè di “qualcosa che sta per qualcos’altro”. Gli stessi eventi naturali sulle diverse scale nelle quali essi si presentano possono assumere nuove dimensioni di significati che vanno molto al di là della pura descrizione razionale e/o scientifica e spesso rinviano a situazioni “originarie” spesso collegate a dimensioni mitiche (Storie naturali, Vizio di forma, Il sistema periodico).

Di Rocco Emilia, Università La Sapienza di RomaCreation and Pagan Culture in The Middle Ages: Robert Holcot’s Commentary to the Book of Wisdom
Creation and origins are recurring themes throughout the Book of Wisdom and they strongly depend on the interpretation of Genesis 1-3. As a matter of fact, the beginning of the world (Wis 1.6), the origin of wisdom (Wis 7-9) and the origin of Israel (Wis 10-19) are interconnected. By rewriting the opening chapters of the Hebrew Bible, the author seeks to understand the human condition, while acknowledging the active role of Wisdom in creation (Wis. 8:4). In this regard creation has a hermeneutical function in interpreting the theological message of the entire Book, that is the idea that Divine justice is eternal because God created the world so that it might exist and intervened in history following wisdom. Creation in this Book tends to life and preservation so much so that the divine plan doesn’t envisage death or any destructive force. There emerges a strong link between creation, wisdom and salvation that characterizes wisdom literature in the Bible. To the extent that God promises salvation to his people, references to creation throughout the Book of Wisdom are crucial because to refer to creation means to touch upon man’s sinfulness. In this essay I will focus on the theme of creation in Robert Holcot’s Commentary on the Book of Wisdom, where the author reveals an unprecedented passion for the use of classical literature, mythology and philosophy in biblical exegesis. I will discuss the lectiones where Holcot comments ad-hoc selected passages of the Book of Wisdom centred on the origin of the world and the cosmos. The aim is to reveal how pagan culture can contribute to emphasise the importance of creation as a hermeneutical act in order to reveal the ethical implications of the “cosmocentric” soteriology of wisdom literature in the Bible.

Di Stefano Martina, Università degli Studi di PaviaDai mondi delle origini ai mondi possibili. Racconto delle origini e creazione filosofica nel Crizia e nella Repubblica di Platone
Nei dialoghi platonici sono presenti molte e diverse «immagini delle origini»; tra queste, il racconto dell'Atene antica e di Atlantide contenuto nel Crizia ha suscitato perplessità interpretative e il suo statuto, di mito fondativo o di critica al sistema ateniese, è ancora oggetto di dibattito. La somiglianza dell'Atene mitica con la kallipolis della Repubblica ha in effetti portato alcuni a considerare il Crizia una trasposizione delle proposte platoniche in monodia “quasi-poetica”; alcune fondamentali assenze (quella dei governanti-filosofi) continuano però a suscitare dubbi sulla validità, secondo la prospettiva platonica, di questo racconto delle origini. Per comprendere l'operazione platonica del Crizia verrà innanzitutto evidenziata la ripresa di alcuni meccanismi e motivi poetici; ci si concentrerà in particolare sull'impiego delle genealogie e sul motivo dell'abbondanza alimentare. Lo studio dell'intertestualità renderà possibile situare il racconto nell'alveo della creazione poetica, lasciando tuttavia aperta la questione del suo statuto (mito fondativo o parodica decostruzione?). Per superare questa impasse verrà operato un confronto con il V libro della Repubblica e saranno analizzate le condizioni di enunciazione interne ai testi (chi parla e quale atteggiamento discorsivo assume). A partire da queste osservazioni sarà possibile mostrare che l'invenzione della narrazione atlantica appare una presa di distanza dai racconti sui mondi delle origini e i miti della sovranità che proliferavano nella poesia sapienziale, nel teatro e nelle nuove forme di sapere. Se la poesia tradizionale non è in grado di fornire un'immagine delle origini, il confronto con la Repubblica può tuttavia mostrare come sia il nuovo discorso della philosophia a poter dire l'origine; un'origine che non si colloca nel passato, ma nel presente della continua creazione discorsiva, che nasce dallo sforzo collettivo della comunità dialogica e non dalla voce individuale di un poeta. Sono allora i Dialoghi, nel loro mettere in scena la creazione filosofica, a farsi immagine delle origini.

Duprat Anne, Université de Picardie-Jules Verne / IUFIl Progetto ALEA (ANR-IUF 2019-2023) e il ruolo del caso nella narrazione delle origini
Il programma di ricerca ALEA, diretto da Anne Duprat (UPJV) con Fiona Mc Intosh (U Lille) e Anne-Gaëlle Weber (U. Artois) riunisce specialisti in storia e teoria letteraria, storiografia, estetica ed epistemologia per analizzare le rappresentazioni del caso nell'arte, dall'inizio della modernità ad oggi (dal XVI al XXI secolo). La rappresentazione del caso si impone al pensiero quotidiano come la sua realtà. Questa può assumere la forma di una messa in scena, di una visualizzazione o di una narrazione del verificarsi casuale degli eventi, o può essere data come un esperimento di pensiero scritto, come lo sviluppo completo di un mondo possibile o come una semplice previsione che è rivelatrice di un particolare stato di cose. Dipendiamo dalle figurazioni del caso per aiutarci a capirlo - e quindi a prevedere e pianificare. La creazione letteraria in particolare, per la sua capacità di tracciare gli eventi e di dotarli di logica e di senso, appare come uno dei principali luoghi in cui la casualità è sempre sentita e pensata, prima di essere tradotta in una storia di comportamenti e di istituzioni. Mettendo in evidenza e storicizzando le principali modalità di figurazione finzionale e fattuale del caso, così come appaiono nelle rappresentazioni artistiche della contingenza, i ricercatori della Rete di ricerca et del Progetto ALEA stanno indagando il ruolo centrale che l'arte gioca nella percezione umana del caso, nelle pratiche premoderne, moderne e post-moderne di previsione del futuro, al fine di comprendere meglio gli atteggiamenti umani contemporanei verso il rischio. La nostra presentazione della collezione di studi intitolata Figures of Chance: The Imagination of Chance in the West (16th - 21st Centuries) [2 volumi, 1050 p.] che stiamo preparando per questo progetto ci permetterà di evidenziare il posto specifico dato al caso nella narrazione delle origini - in particolare nella messa in discussione delle cause prime, che gioca un ruolo decisivo nel regime di causalità narrativa nelle opere di finzione così come nelle pratiche narrative non-finzionali.

Eilittä Leena, University of HelsinkiThe Past and the Present in Stefan Zweig’s Legends
Zweig´s Legenden (1948) consists of five stories which are located to distant historical and geographical places but include concerns relevant for Zweig´s own time. “Die Legende der dritten Taube” (1916) tells about the crucial moment when Noah sendsthree pigeons to look for the earth after the flooding. Whereas the first and the second pigeon return to the arch the third one becomes a witness of wars and hostilities of the mankind. Zweig´s pacificism comes up also in “Die Augen des ewigen Bruders” (1921) which takes place in ancient India, where Virata after having accidently killed his own brother in the war keeps on looking for a non-violent positions. In two stories Zweig tells about womens´ predicaments: “Rahel rechtet mit Gott” (1927) depicts Biblical woman´s desperate struggle with God whereas “Die gleich-ungleichen Schwestern” (1927) depicts female predicament inthe European middle ages. ”Der begrabene Leuchter” (1937) is divided to two episodes; in the first, the elders of Jewish community try to save the Menorah from the vandals invading Rome whereas in the second, when the Menorah is found again, there arises hopes of getting it back to the Jewish community.In these narratives Zweig makes use of archaic topics, form and language in order to bring up concerns which preoccupied him between the wars in Europe. While paying attention toconflicts and wars, to antisemitism and to problems related to the female´s position in the traditional communities, Zweig´s modern legends makes use of cultural memory in order toshow the contemporary problems of his day.

Fameli Pasquale, Università degli Studi di BolognaAbitare l’archetipo. Tempo, preistoria e mito nella poetica di Mario Merz
L’igloo ha caratterizzato il percorso dell’artista torinese Mario Merz sin dalla sua adesione al movimento Arte Povera, teorizzato da Germano Celant nel 1967. A partire da allora, Merz ha riproposto la forma dell’igloo in numerose varianti, esponendole nei più importanti musei nazionali e internazionali. L’attualità di questo tema e la necessità di contribuire alla sua sistemazione critica sono attestate dalla grande retrospettiva, a titolo Mario Merz. Igloos, tenutasi all’Hangar Bicocca di Milano nei primi mesi del 2019 e dall’imminente pubblicazione del primo catalogo ragionato degli Igloo merziani a cura di Maddalena Disch. Nel corso degli anni si sono accumulate numerose riflessioni critiche attorno all’argomento, contribuendo ad aumentarne la complessità concettuale; tuttavia, nella poetica dell’artista, l’igloo si configura soprattutto come un archetipo culturale, una metafora della vita umana e dei suoi bisogni primari. Con la reinvenzione dell’igloo, infatti, Merz compie un viaggio immaginario alle origini della cultura esplorando i concetti di protezione, sopravvivenza e resistenza. L’igloo condensa quindi i valori di quello “stile dello stretto necessario” (Goffredo Parise) già delineato nelle teorie di Herbert Marcuse sul rapporto tra eros e civiltà e sulla monodimensionalità dell’uomo moderno, temi cruciali del Sessantotto che interessavano anche Merz e altri suoi compagni di strada. Partendo da una contestualizzazione dell’Igloo merziano nel clima dell’Arte Povera e dalle problematiche storico-stilistiche connesse, si passerà a un’analisi delle sue valenze simboliche e antropologiche ponendolo in relazione al concetto di “mitologia individuale” formulato da Harald Szeemann nel 1972 per una sezione espositiva di Documenta 5 a Kassel. Tale nozione definisce i processi di formazione o rielaborazione soggettiva del mito comuni a molti artisti del periodo e tematizza l’idea, espressa da Claude Lévi-Strauss, che la pratica artistica sia una diretta perpetuazione del pensiero mitopoietico.

Favero David - Candellieri Stefano, Centro Medico Psicologico TorineseCritica Letteraria, Psicoanalisi e Memoria del Futuro
La psicoanalisi, fin dalla sua fondazione, è stata attratta dal discorso sulle Origini : si pensi al proposito alle tematiche del Complesso di Edipo o a scritti come Totem e Tabù . Freud, contemporaneo di Schliemann ed appassionato archeologo egli stesso, utilizzò spesso la metafora dell’archeologio per illustrare il suo metodo volto alla ricerca e al recupero delle origini dei traumi individuali infantili. Jung, pur differenziandosi da Freud in merito alla teoria della libido, si interessò parimenti al tema delle Origini attraverso lo studio della mitologia, fondando la dottrina degli archetipi e concettualizzando l’inconscio collettivo. Oggi il discorso sulle Origini è ancora utilizzato nella pratica analitica, per esempio con l’attenzione alle tematiche transgenerazionali o ai modelli operativi interni. Tuttavia, dopo oltre un secolo, il modello psicoanalitico della mente è cambiato in senso costruttivista e relazionale, giacché tale mutamento di paradigma attribuisce minor rilevanza alla ricostruzione indiziaria della biografia psicologica di un individuo; piuttosto, la psicoanalisi contemporanea mira alla ri-costruzione di “strumenti per pensare”, primo tra tutti la capacità di pensiero onirico. Non più, dunque, una psicoanalisi dei contenuti della mente da inventariare, ma una psicoanalisi che accompagni i pazienti nel compito di sognare quanto non erano stati in grado di sognare in precedenza. Come in una scala di Escher, ogni passo compiuto nella propria memoria in analisi, sarà contemporaneamente anche un passo in avanti verso quel futuro che non si era stati in grado di pensare e il “testo analitico” non sarà un testo definitivo e storico per decifrare il passato, quanto piuttosto un testo vivente perennemente in espansione. Ricordare per inventare, dunque, e una “memoria del futuro” tale per cui il rapporto tra narrazione e Origini , non sia tanto e solo la "narrazione delle origini", quanto il narrare come strumento profondamente mentale e onirico per originare un futuro mai immaginato prima.

Feola Giuseppe, Independent ScholarGenesi spontanea vs progetto intelligente. Due prototipi greci del mito delle origini
La cultura greca arcaica non ha un mito della creazione: il mito greco delle origini si distingue da quelli mediorientali per il fatto che le realtà primeve, in esso, spontaneamente “vennero all’essere” (Hes., Th. 116), e generano poi le altre realtà; il modello concettuale è dunque mutuato dal divenire naturale, parte organico parte inorganico, e non dalla creazione artificiale.A questo mito cosmogonico, Platone oppone più volte un mito del tutto alternativo, fondato sul concetto di ‘progetto intelligente’ (Ti. passim, Prot.320c-322d, Pol. 268d-274e), molto più simile ai miti mediorientali.Aristotele cercherà di contemperare queste due istanze, eliminando l’idea di un’origine cronologica (l’universo, per lui, è eterno) e affermando che l’ordine cosmico è frutto dalla spontanea tendenza naturale a imitare la perfezione dell’intelligenza (Metaph. XII 7).Nel mio contributo intendo illustrare i tratti principali delle due modalità di concepire le origini (quella arcaica e quella platonica), al contempo notando le mosse teoriche compiute da Aristotele nel difficile compito di contemperare le due istanze. Il nucleo concettuale che consente ad Aristotele di risolvere la tensione, è l’ipotesi di una natura concepita come ‘spontaneità’, alla maniera arcaica, ma al contempo come razionale: disinnescando così la diffidenza platonica verso una natura ‘irrazionale’ e perciò incapace di giustificare iuxta propria principia l’ordine che osserviamo nel cosmo.

Fernandes Angela, Universidade de LisboaLooking for Lost Origins in Vanishing Worlds: Two Novels by Mário de Carvalho and Antonio Muñoz Molina
This paper discusses the importance of distant scenarios and blurred origins when representing identity building. Both the individual and the collective search for origins may be represented as a process of “becoming of age” and of growing self-awareness, and this tends to be emphasized when the process takes place in remote periods or in far off regions. In order to discuss this conceptual link between the search for origins and the attempt to grasp distant vanishing worlds, two novels will be considered: Um deuspasseando pela brisa da tarde [A God Strolling in the Cool of the Evening] (1994), by the Portuguese novelist Mário de Carvalho (b. 1944), and El viento de la Luna [The Wind of the Moon] (2006), by the Spanish author Antonio Muñoz Molina (b.1956). El viento de la Luna brings together the daily life in a small village of the Spanish countryside and the first human landing on the Moon. The protagonist describes, retrospectively, his coming of age in the 1960s and, focusing on the summer of 1969, his story highlights the striking contrasts between the ancestral rhythm of life in a deeply rural community and the allure caused by the technological progress symbolized by the mission of the spacecraft Apollo XI. Um deus passeando pela brisa da tarde presents a different kind of distance. The story takes place in Tarcisis, an invented city of the Roman empire in southern Lusitania, in late 2nd century AD, and the protagonist remembers how, during his time as governor of this city, he had to face radical challenges to his convictions as a Roman citizen. My argument is that both novels present remote places as both the origin and the vanishing site where some possible identity may still be found, even if they seem as distant as imperial Rome or the Moon.
Ferragamo Emanuela, Università degli Studi di TorinoNature morte e altri omicidi. Uccisione passionale delle origini in una delle Leggende spietate di Wolfgang Hildesheimer (1952)
Nel racconto Dal mio diario Hildesheimer narra di un anonimo personaggio che, visitata una mostra sulla “cornice fine a se stessa”, ne acquista una per “riempirla” con una natura morta (in: Leggende spietate 1993, 146). La composizione di una “mediocrità genuina e spigliata” che acquista da un antiquario rivela dopo un’accurata pulizia un ritratto di Rubens e un paesaggio bavarese (ibid., 152).Nell’arguta storiella il paesaggio èun mitologema della percezione estetica (Milani 2001, 50). La cornice “fine a sé” esplicita infatti il legame del paesaggio con la “mitologia” storico-culturale delle narrazioni (Milani 2001, 50). Essa èun dispositivo narrativo, un’“unità coesiva del mondo cosciente” (Hildesheimer 1993, 146), al pari delle cornici nelle quali i diari del Settecento costringevano i monumenti visitati in una sorta di “reliquiario del piacere estetico” (ibid., 79). Un sentore di foglie vizze spira anche dalla banale composizione di ortaggi, cui pure il protagonista sacrifica senza rimpianti un inestimabile Rembrandt. Il desiderio di ritrovare la prima immagine è allora simile a quello che anima l’occhio innamorato che tentando di scrutare più in profondità l’oggetto agognato lo trapassa: lo attraversa e lo uccide, senza afferrare l’infinito di là di esso (Starobinski 1975, 9). Anche la natura morta è perduta per sempre (Hildesheimer 1993, 147). Dal mio diario racconta dell’origine: di quella storica del paesaggio dall’arte olandese e di quella psicologica dell’immagine dal desiderio. Il testo individua inoltre nell’ironia la “cornice” entro cui svolgere questo tema: il rimando ironico al paratesto svela da ultimo come non esistano origini ma copie e rifacimenti (Deleuze 1978, 67). Sono consunte come le “immancabili goccioline di rugiada” e il “tradizionale insetto” della natura morta di Hildesheimer (1993, 148) – matrice a un tempo dell’origine del paesaggio e della sua perdita.

Fracassa Ugo, Università degli Studi di Roma 3Il mito delle origini in Emilio Villa, poeta, traduttore e critico d’arte
L’immaginazione dell’Origine attraversa l’intero percorso intellettuale, poetico e artistico di Emilio Villa, dall’ultimo scorcio degli anni Trenta, quando si forma competenze di semitista, a Roma, presso il Pontificio Istituto biblico, alla stagione postbellica condivisa con gli artisti della scena informale italiana e newyorkese, fino agli esiti estremi di una sperimentazione poetica tutta giocata tra archè ed èschaton. L’immaginario cosmogonico, nutrito dalla giovanile esperienza di traduttore dell'Enūma eliš e poi, dal costante lavoro sulla Bibbia – si vedano in particolare le note alla traduzione del Genesi – condurrà il poeta di Affori a stilare, alle soglie degli anni Ottanta, un poemetto didascalico a imitazione di Lucrezio (Niger mundus), dove l’atomismo già democriteo incrocia le teorie del big bang, come “mito scaccia mito”. La stessa traduzione dell’Odissea, edita per la prima volta negli anni Sessanta, offre il destro per risalite mitografiche che, a partire dai nomi dei personaggi omerici, individuano precedenti rituali di area minorasiatica e mesopotamica. La consistenza intimamente linguistica del mito delle origini, inoltre, si manifesta negli studi etimologistici di Villa – fin dal 1939, quando ipotizzava radici accadiche per il nome di Eva – ma con decisive epifanie nella scrittura in versi, per esempio in quelli, cruciali, di Linguistica (1950): “No, non c’è più origini […] E non per questo celebro […] l’etimo corroso dalle iridi foniche”. Ma è nella peculiare critica d’arte che il condirettore di “Arti visive”, rivista della Fondazione Origine, stringe in un bruciante paradosso modernità e primordi, la fascinazione per i graffiti delle grotte di Lascaux e quella per i glifi di Capogrossi, le riflessioni su “Ciò che è primitivo (in “Arti visive”, maggio 1953) e quelle sulla “cosmogonia del non visibile” sottesa all’opera di artisti come Burri e Rothko, in una strenua militanza volta a “favorire gli indizi espressivi della forza formatrice archetipa” (così per Burri nel 1959).

Fregosi Caterina, Independent ScholarQuale cosmogonia? Un’interpretazione di un passo di Megastene sulle dottrine dei brahmani (Str. XV 1, 59)
Gli ‘Ινδικά di Megastene hanno colpito grandemente il mondo accademico per il loro ruolo di spicco nel panorama delle testimonianze sull’India prodotte dai Greci antichi. Varie sono state le valutazioni dei critici riguardo dell’opera, a noi giunta frammentaria, che il funzionario compose a partire dalla sua permanenza nella Pataliputra di Candragupta Maurya. Dalle più antiche posizioni a favore del valore pienamente storico delle parole di Megastene, si è passati a valutazioni più recenti, che vedono gli ‘Ινδικά come un reportage dei costumi indiani falsato poiché finalizzato alla propaganda seleucide e quindi scarsamente affidabile. Senza dubbio colpisce e sembra restituire fiducia all’operato di Megastene il recente utilizzo dei suoi frammenti da parte degli studiosi di Indologia. Johannes Bronkhorst (Greater Magadha. Studies in the Culture of Early India 2007), ad esempio, per fornire un riscontro testuale esterno ai testi in sanscrito nell’indagine sull’assimilazione di forme ascetiche permanenti nel brahmanesimo ortodosso, si serve proprio di Str. XV 1, 59, notando come la suddivisione dei ‘sacerdoti’ indiani doveva essere, all’epoca in cui scrive Megastene, davvero complessa e stratificata come quella che egli aveva tratteggiato. Tenteremo di argomentare come una simile, seppur molto meno corposa, operazione possa essere intrapresa a riguardo della sezione del medesimo paragrafo straboniano in cui si riporta che quella parte di φιλόσοφοιindiani detti Βραχμᾶνες ritenessero che all’origine del mondo, la κοσμοποιία, vi fosse stata l’acqua. I commentatori del passo a noi noti hanno infatti, uniformemente, sostenuto che nel comporlo Megastene abbia semplicemente attribuito ai saggi dell’India nozioni filosofiche a lui familiari, fra cui questa, chiaramente dipendente dal pensiero di Talete. In verità, una tale dottrina è ampiamente attestata nella letteratura antica dell’India, in cui l’interrogativo sulle origini del mondo ha un ruolo centrale. Il contributo si propone di analizzare alcuni passi della letteratura sanscrita in cui emerge esplicitamente l’importanza dell’elemento acquatico nella riflessione cosmogonica vedica e upaniṣadica, concentrandosi in particolare sul famoso inno Ṛgveda X, 129 e su Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, I, 2. Sulla base di questi e altri testi, risulterà che l’attribuzione di Megastene di tali dottrine ai brahmani è tutt’altro che una grecizzazione o un’invenzione nata dall’incapacità di questo autore di cogliere l’autenticità del complesso pensiero indiano.

Frustagli Caterina, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano“Nato a Colofone”. L’uso della figura del centauro come riscrittura nel trauma collettivo in Primo Levi
Nella vasta produzione leviana, lo scrittore ha fatto ricorso alla mitologia più volte e questi utilizzi hanno assunto significati diversi. È mia intenzione concentrarmi sulla figura del centauro Trachi, che l’autore crea innestando, sull’impianto cosmogonico di tradizione ebraica, un elemento mitologico derivato dalla tradizione greca e che, nella mia esegesi, serve come forma mitopoietica per rendere rappresentabile la spaccatura paranoica generata dal trauma, inteso, non solo come ferita personale, ma come faglia della società. Poiché il trauma collettivo causato dalla barbarie della Shoah ha colpito le fondamenta stesse della civiltà, si rende necessario il ricorso ad un mitologema, ad una narrazione fondativa che ri-componga non solo la frattura personale del soggetto che la esperisce, ma anche quella della società che la produce, ed al tempo stesso la subisce. Come può avvenire dunque un processo riparativo in un tessuto sociale in cui l’uomo, allo stesso tempo, è vittima e carnefice? La ricomposizione necessita di una parola di sutura straordinariamente resistente, che però deve fare i conti con la fatica del contenimento di istanze diverse e con le inevitabili smagliature. Trachi nato a fronte di processi di ibridazione straordinari, porta in sé la violenza primigenia del caos e della pulsionalità, creativa e distruttiva. Violenta ed ingravida, allontanandosi infine da una società che lo ha accolto, ma da cui sente di essere stato tradito e dunque dopo aver agito la propria brutalità, se ne separa, per non continuare a distruggerla. Le parti scisse e rimosse infatti, irrompono in una periodica azione di disturbo che richiede un’azione di integrazione, imperfetta e precaria, per quanto necessaria, ma pur sempre in divenire. Il centauro, non riuscendo a tenere questa integrazione delle proprie parti, sembra dover svanire per far scomparire l’aggressore interno, tornando ad essere «un uomo a cavallo di un delfino», come appare Trachi nell’ultimo avvistamento, prima di dileguarsi per sempre.

Furci Guido, Paris 3, Sorbonne Nouvelle / École Normale SupérieureÀ l’échelle du monde? Valeurs et fonctions de la métonymie chez Primo Levi et Aharon Appelfeld
«Qu’il s’agisse de camps de concentration nazis, des goulags de l’Est, des tortures en Amérique latine, de crimes individuels (et des criminels si vite baptisés “monstres”), on aime se persuader que ce sont là des anomalies, des tragédies, des drames », observe Viviane Forrester dans La violence du calme (Seuil, Paris 1980). « En effet, le drame, la tragédie, c’est justement qu’il n’y en a pas », poursuit-elle, « que leurs modèles sont intériorisés, acceptés, vécus et propagés dans le refoulement et la résignation par le plus grand nombre, au point qu’on en vient à désigner comme exceptionnel, scandaleux, ce qui n’est que forme exacerbée, ostensible, du quotidien ». Amplement thématisées par plusieurs ouvrages issus de la littérature dite « post-concentrationnaire », ces considérations suggèrent un système d’équivalences pour le moins problématique entre « tranquillité » et « brutalité inaperçue », « quiétude » et « horreur latente ». Or, les productions de Primo Levi (1919-1987) et d’Aharon Appelfeld (1932-2018) nous demandent d’être lues et interprétées, entre autres, comme des tentatives plus ou moins assumées d’expliciter les enjeux majeurs d’une telle hypothèse : d’une part, Levi et Appelfeld la considèrent fondée, bien que pour des raisons différentes ; d’autre part, ils sont persuadés que le fait de ne pas lui accorder suffisamment d’importance pourrait avoir des conséquences désastreuses et entraîner l’effacement, non seulement d’une certaine catégorie de personnes, mais de l’humanité toute entière. C’est ce que cet exposé s’efforcera d’approfondir, d’abord au moyen d’une « lecture croisée » des deux auteurs pris en examen, puis par le biais de leur remise en contexte, dans une perspective à la fois thématique et réthorique. Cela va de soi, interroger les modalités de représentation de la violence chez Levi et Appelfeld signifiera aussi en questionner les origines.

Gaboriaud Marie, Università degli Studi di GenovaNostalgie des origines et mythe de l’âge d’or européen dans la critique musicale du premier XXe siècle
Les discours de la Belle-Epoque et de l'entre-deux-guerres sont souvent marqués par une angoisse de la décadence et un fantasme de l’âge d’or. Les discours sur la musique ne font pas exception et s’avèrent même une porte d’entrée privilégiée pour étudier ces discours, la musique symbolisant souvent - et particulièrement depuis Rousseau - un langage originel à l’abri des contingences. La critique musicale en particulier, bien que centrée sur la musique contemporaine et prise dans les débats esthétiques du temps, manifeste pourtant la nostalgie d'un âge d'or perdu de la musique européenne, et plus globalement de la culture européenne, détruite par le matérialisme (avant-guerre) et par la violence des combats fratricides (après la guerre). Cette déploration de la perte se manifeste par le recours constant aux figures des grands hommes du XVIIIe siècle : Goethe, Rousseau, Beethoven, Kant, entre autres. Ils incarnent un temps béni, où auraient prévalu le cosmopolitisme des esprits, la paix, et l'intelligence. La nostalgie touche principalement, dans le cas de la France, les discours sur la musique allemande. À l'Allemagne ancestrale des penseurs, des poètes et des musiciens, on oppose l'Allemagne moderne, matérialiste et impérialiste. Chez bien des auteurs, ce regard constamment tourné vers le passé de l'Europe les empêche en effet de penser la possibilité- même d'une Europe moderne. La théogonie particulière que l’on trouve dans ces articles dessine une « troupe d'élite », parfois artificielle car anachronique (à Beethoven et Goethe, on accole souvent Rembrandt, Michel-Ange, Balzac, Shakespeare...), qui manifeste la tendance à la glorification des héros et à une certaine vision de l'histoire, faite avant tout par des individus. Cette lecture de l'histoire musicale comme agrégat de grands hommes auxquels il faudrait sans cesse revenir pour faire face au présent, se heurte à une autre tendance, celle de l'évolutionnisme, mise à jour par les chercheurs anglo-saxons, comme Bennet Zon (voir en bibliographie Irène Deliège et al., Musique et évolution). Nous nous proposons d’étudier ces différentes tendances, et leurs éventuelles combinaisons dans des corpus de presse (Revue musicale, Courrier musical, Musica, etc.), pour en faire émerger les paradoxes les plus intéressants. La reconfiguration de la presse musicale autour de 1900 la porte en effet vers une fonction de défense de la musique contemporaine, alors qu’elle manifeste dans le même temps une profonde nostalgie pour des “origines” mythifiées.

Garcia Patricia, University of Nottingham (UK)The Legends of the Devil’s Bridge in European Folklore: A Comparative Analysis European folklore is populated by legends of bridges and dams whose origins are attributed to the Devil deeds. These legends are connected with the idea of haunted, diabolic spaces made by a morally-reprehensible being. These types of narratives allowed communities of the Middle Ages to rationalise the exceptional dimensions and architectural complexity of certain built structures, in particular those of Roman origin. In line with the rationale of cosmogony myths, these legends reflect the mystery of creation and provide an imaginary explanation for the existence of buildings that escaped the human norms of intellectual apprehension. In my paper, I will explore these legends from a comparative perspective. The first part will be dedicated to the mythological origins of the architect, as the one who humanizes chaos and succeeds in constructing a livable space. If architecture is an activity related and restricted to the divine, it should be no surprise that in the building of certain “monstrous” structures the devil is portrayed in medieval imaginaries as God’s rival. The second part analyses the features of narratives describing the Devil’s architectural creations, such as the Puente del diablo in Martorell (Catalonia), the Pont Valentré in Cahors (France), the Ponte del Diavolo in Lanzo Torinese (Italy) and the Devil’s bridge in Aberystwyth (Wales).

Gasperina Geroni Riccardo, Università degli Studi di Bologna«Vivere è cominciare»: all’origine della poetica mitica di Cesare Pavese
Cesare Pavese è uno scrittore noto per la sua propensione all’esplorazione della dimensione mitologica, in chiave psicoanalitica e antropologica. L’intervento che propongo intende analizzare il problema dell’inizio nella duplice accezione di produzione di un’opera letteraria e di riflessione sul problema dell’origine dell’umano. Entrambe le prospettive sono presenti nel lavoro di Cesare Pavese, in particolare nel suo Zibaldone di pensieri, il Mestiere di vivere, in cui il problema della nascita dell’opera artistica è intrinsecamente legato all’«ispirazione nucleare» che doveva rimandarae, nella riflessione dell’autore, a una dimensione primigenia, vicina alle origini dell’umanità.

Ghelli Simone, Università degli Studi di PaviaLevi, Darwin e l’origine dell’umano
In questo intervento vorrei offrire una lettura darwiniana del rapporto tra umano e inumano/animale in Primo Levi. Sebbene il dibattito attorno alla riflessione antropologica dello scrittore torinese si stia facendo sempre più centrale e innovativo, l’influenza esercitata da Charles Darwin pare non aver ancora trovato la giusta rilevanza. La tesi che mi riprometto di argomentare è la seguente: per comprendere appieno la definizione dello statuto dell’umano elaborata da Levi, da alcuni interpreti ricondotta a precise tradizioni filosofiche (umanesimo e post-umanesimo), occorre guardare non tanto al “Darwin-biologo” de L’origine delle specie – aspetto questo ben noto e ampiamente rivendicato dallo stesso Levi -, quanto al “Darwin-moralista” de L’origine dell’uomo. In un primo momento, intendo ricostruire molto sinteticamente le principali posizioni interpretative, mettendo in luce come queste giungano a una sorta di impasse quando messe di fronte a pagine complesse e apparentemente contraddittorie dell’opera leviana come la conferenza del 1979 sull’intolleranza razziale. Successivamente, intendo fornire un inquadramento filologico del rapporto tra Levi e Darwin, cercando di capire, in assenza di documentazioni certe, come e quanto lo scrittore torinese possa entrato in contatto con le pagine de L’origine dell’uomo. Infine, si tratterà di evidenziare i parallelismi concettuali tra la prospettiva antropologica darwiniana e quella leviana, ponendo l’accento sulla concezione evoluzionistica della categoria di «civiltà» a cui entrambi gli autori ricorrono per definire il rapporto tra umano e inumano/animale.

Giansiracusa Nicola, Università di LisbonaOf Humans, Angels, and Salamanders: Origins, Evolution, and the Axolotl in Primo Levi’s Angelica Farfalla
Originating from Lake Xochimilco in Mexico, the axolotl has drawn, and is drawing, the attention of scientists and artists alike. Among other things, this salamander is renowned for being neotenic: it can live all its life without metamorphosing into its adult form, and reproduce while still a larva. This is why the Italian author Primo Levi (1919-1987) chose it as the key element of his short story Angelica farfalla (first published in “Il Mondo” in 1962, then in Storie naturali in 1966), making it the inspiration for professor Leeb’s hellish attempt to transform humans into angels, resulting in mutant creatures that vaguely resemble chickens. A similar outcome had already been described in Aldous Huxley’s After Many a Summer (1939). In the novel, the Fifth Earl of Gonister, after living for 201 years, mutated into an ape, humans’ real adult form. Huxley was probably inspired by his brother Julian’s experiments on axolotls, quoted by Levi as well.One way or another, the axolotl seems to spark the glimpse of an ancestral origin of humankind to be recovered, the key to humans’ hidden identity. But such origins seem to bear the seeds of the worst possible assumptions drawn from Haeckel’s theory that ontogenesis repeats phylogenesis, which led to the racist strand of evolutionism and eventually to Nazi eugenics. This paper will concentrate on the scientific, literary and mythical milieu behind Angelica farfalla, in order to shed new light on Levi’s idea of Nazi’s thwarted scientific method (what he calls “black magic”) and its degrading consequences involving the return of the human to a primal condition, oblivious of Prometheus’s gifts. The research will consider perspectives from evolutionism, Greek mythology and tragedy, and an anthropological understanding of cannibalism.

Goeschl Albert, Karl-Franzens-Universität GrazTowards a Literary History of the Utopian Origin
In a text genre that is primarily projected towards the future, the past as an antithetical counterpart does not initially seem to be of high importance. As a matter of fact, the literary modelling of original discourses plays a crucial role in utopian texts, even in early modern utopias that generally are concerned to be space-utopias, depicting society in other geographical frames, and not time-utopias, talking about not yet existing epochs. In early modern space-utopias however, the narration of the origin as a distant past is functionalized in order to legitimize the representation of the ideal eutopia. The depiction of the origin can be very different according to the concrete utopian shape, but it primarily serves to clarify the relationship between the contemporary reader's world and the imagined community, trying to answer questions that could lead to rational incoherence during the reading process. These questions may concern the isolated evolution of the utopian spaces, the Christianisation of utopian societies, language and the utopian knowledge of European (ancient) culture. The presentation proposes to create a typology of the utopian past throughout the most important utopian designs of 16th and 17th century by reflecting on how the distinctive passages conveying these literary functionalised narrations of origins interestingly engage and play with the different “ontological scales” of narrated past and depicted present.

Grande Francesco, Università degli Studi di TorinoAn Ethnic Origin Myth in Classical Arabic Literature. Structural and Comparative Aspects
Arabic mythology is a poorly studied subject. This mainly depends on the damnatio memoriae pre-Islamic paganism underwent at the rise of Islam. Such a phenomenon prevented Classical Arabic Islamic civilization from transmitting its originally oral mythology in written and abundant form, contrary to what can be observed in other Classical (e.g., Greek, Latin and Indian) civilizations. An important part of mythology is the origin myth of a people.According to Chelhod (1962), in Classical Arabic Islamic civilization this kind of myth has survived fragmentarily in historiographical and lexicographical sources, often revolving around a civilizing hero (protos euretes). This proposal studies the character of Jurhum, the narratives about whom are fragmentary and scattered among several texts (Firestone 1990). In this character, the narrative feature of protos euretes (notably, the first speaker of Arabic) is clearly associated with that of the Arabs' ancestor.Such features possibly point to an ethnic origin myth centered on Jurhum (Grande 2018). The proposal discusses the interpretation of Jurhum in terms of ethnic origin myth in two main respects. First, in its structural respect. Because of the fragmentary and intertextual nature of attestations, the character of Jurhum is more observable on paradigmatic axis, i.e., in its narrative variants, than on syntagmatic axis, i.e., in a linearly ordered plot (cp. Lévi-Strauss 1958). Second, this interpretation is discussed with respect to comparative literature. Some narrative parallels can be observed between Jurhum and the Classical Graeco- Latin character of Aeneas in terms of ethnic origin myth.

Grapa Caroline Jacot, Université de Lille«Hasard des origines : variations de la poétique matérialiste au 18e siècle»
Au 18e siècle, théologie naturelle et déterminisme matérialiste s'emploient à récuser le rôle et la notion même de hasard, au nom d'un côté d'un Dieu créateur dont la Providence s'exerce dans le monde, de l'autre au nom des lois de la nature, dont le hasard, au mieux, masque l'ignorance. « Personne ne fait son Dieu du hasard », écrit Voltaire. Si l'on sort cependant de ce cercle dogmatique qui voit s'affronter des postures étrangement communes, au-delà de systèmes argumentatifs opposés, on voit émerger dans le domaine des sciences naturelles, une conception tout autre. Elle fait jouer le hasard dans l'origine, l'organisation et la production continue du vivant sur un tout autre mode que celui du clinamen des origines, de l'épicurisme antique. Le hasard est un opérateur de variations fines à l'origine de modifications ou de déterminations singulières. Cette enquête mettra en relation une série de textes (clandestins, anonymes, posthumes), du Telliamed de Benoit de Maillet [1720] au Rêve de d'Alembert de Diderot [1769], qui renouvelle la poétique du discours scientifique, entre imagination et intuition renversante de l'origine continuée du vivant, sous les espèces de l'écart, de la variation et de la métamorphose, qui à la fin du siècle va aboutir à l'idée de transformation.

Immisch Quintus, Università di TubingaIl nudo e la letteratura. Immaginazioni estetiche di Apollo tra Ovidio, Winckelmann e Rilke
La nudità non è solo legata ai concetti di verità e di immediatezza, ma racconta anche di origini immaginate e di fini perdute, di inizi sconosciuti e di termini temuti: dell'emergere dell'uomo e del passare del tempo, dell'inizio della cultura e della fine del paradiso, del risveglio del desiderio e delle terre sognate. Le narrazioni della nudità oscillano tra stato ideale e denudazione violenta, e sono sempre fondamentali: nudi sono Adamo ed Eva, nudi sono i morti nell'Inferno, ma nudi sono anche i "selvaggi". La visione della nudità fa impazzire, cancella la memoria, uccide. La conferenza vuole distinguere alcune forme di narrazione della nudità in una prospettiva teorica e darne un esempio nel suo sviluppo storico per dimostrare come la nudità produca teoria: l'episodio di Apollo e Dafne nelle Metamorfosi di Ovidio racconta la visione della nudità e l'origine della poesia, operando con la metafora del testo e del tessuto per descrivere la poesia come vestito. Questo nesso poetologico tra nudità e abbigliamento sarà poi tracciato nella presenza di Apollo nelle opere di Johann Joachim Winckelmann e Rainer Maria Rilke. In Winckelmann, la liberazione dai vecchi abiti simboleggia l'allontanamento dalla tradizione che porta all’oblio culturale e a un nuovo inizio; allo stesso tempo la sua immaginazione della nudità è illuminista e coloniale. Nel suo saggio Auguste Rodin, Rilke riflette sulla storia della nudità tra libertà antica e velo cristiano; anch'egli è un narratore delle origini, partendo da “passati indicibili” per trovare - nel contesto scientifico-psicanalitico - una poetica pre-soggettiva che sia il più possibile oggettiva. Le Poesie Nuove sono infatti aperte da sonetti ad Apollo. Qui, il mito serve a dispiegare una poesia che torni all’origine della civiltà; eliminando il soggetto. L’occorrenza moderna del mito della nudità non tematizza solo un’epoca perduta ma simboleggia anche una ricerca interiore del nulla.
Jaafar Safa, Institut supérieur des sciences humaines du MédenineL’intermédialité littéraire et la narration des origines dans Vaste est la prison d’Assia Djebar et dans Maisons perdues de Nathalie Heinich
Comme dans Vaste est la prison d’Assia Djebar, l’intermédialité littéraire se révèle dans Maisons perdues de Nathalie Heinich. En fait, l’intermédialité se définit comme étant la relation consubstantielle entre art et littérature. Dans ces deux œuvres, l’écriture intermédiale mène à la narration des origines. En fait, les narrations des origines sont perceptibles dans deux cultures du monde différentes à la fois dans les arts cinématographiques et photographiques. D’une part, comme un roman francophone, Vaste est la prison permet de déceler la narration des origines de la narratrice et ses aïeules grâce à une écriture cinématographique et à une narration qui se base sur le septième art. D’autre part, Maisons perdues de Nathalie Heinich permet de narrer les souvenirs d’enfance de l’écrivaine tout en partant de l’art photographique car les photos dans chaque partie du texte permettent d’éclairer tout ce qui concerne les origines de la narratrice dans le texte. De facto, on remarque indéniablement le lien étroit entre l’artistique et le littéraire dans cette étude comparative entre ces deux romans. Ce qui pourrait être justifié dans cette affirmation de Jean Pouillon : « à ce qu’on voit au sens strict du mot, que si tout ce qu’il y a de psychologique dans le roman est simplement le résumé, venant après l’enregistrement en quelque sorte cinématographique de la conduite. »[1]Alors, qu’est ce que l’intermédialité littéraire ? Quel rapport existe-t-il entre l’intermédialité et la narration des origines dans l’écriture djébarienne et l’écriture heinichienne ? Comment se manifeste la narration des origines dans les cultures du monde dans les arts cinématographique et photographique dans Vaste est la prison d’Assia Djebar et Maisons perdues de Nathalie Heinich ? Quelles sont les spécificités et les répercussions de l’artistique dans ces deux œuvres?
[1] Temps et roman, Jean POUILLON, Gallimard, Paris, 1993, p. 38

Kaennel Lucie, University of ZurichLe double récit biblique de la création: une cosmogonie (pas) encore comme les autres?
Les premiers contes explicatifs ont été recueillis et publiés au début du XIXe siècle, notamment dans le recueil des frères Grimm mais ils sont restés en marge des études sur le folklore et la mythologie. Il faut attendre la début du XXe siècle avant que les premières études ne leur soient consacrées mais le vrai intérêt pour ces textes n’est né qu’à la fin du siècle. Si dans la plupart des pays européens, ces contes et légendes ne sont plus racontés, dans certaines régions, notamment dans la péninsule ibérique, et surtout en Europe orientale (Bulgarie, Lituanie, Russie, Ukraine, Biélorussie) cette mythologie des temps modernes continue à se transmettre oralement.Je me propose d’analyser un chapitre du corpus : la création de la femme et sa position dans la société. Certains de ces contes et légendes sont connus sur tout le continent, d’autres ont une diffusion restreinte. Je vais analyser les motifs de la création de la femme, originale par le choix de la matière première et par l’intervention diabolique, de l’apparition des particularités de sa physiologie et de son psychisme, enfin de la différenciation sexuelle. Je me pencherai également sur les contes justifiant la distribution inégalitaire des tâches dans le couple et la domination masculine. Je m’interroge sur les origines du message misogyne et la fonction de ces récits étiologiques.

Kabakova Galina, Université SorbonneL’origine de la femme et l’inégalité des sexes d’après les récits étiologiques européens
Sous des formes variées, par-delà les aires culturelles, les frontières géographiques ou les représentations et systèmes religieux, les cosmogonies « racontent » les origines du monde, de l’être humain, du divin. M’appuyant sur des exemples tirés de mythes d’origine de provenance diverse, je m’attacherai, dans un exercice de typologisation, à en repérer les récurrences archétypales, encore que chacune de ces « figurations » ou « narrations » du monde soit spécifique, inscrite dans un contexte donné, en résonance avec l’histoire d’un peuple particulier, dans la mémoire duquel elle s’incarne jusqu’à être constitutive de son identité.Plusieurs de ces archétypes se retrouvent également dans le double récit de la création « mis en scène » dans la Bible, ce que souligne une lecture, tant juive que chrétienne, du texte biblique. Se pose alors la question de savoir si ce double récit biblique est une cosmogonie comme les autres, parce qu’il est pour ainsi dire construit de la même manière que d’autres mythes d’origine, ou s’il s’agit d’une cosmogonie pas comme les autres, car il y va de la Bible…Une lecture croisée de différents récits de la création du monde et une étude comparée de la fonction que leur assignent ceux qui les ont « fabriqués » tant dans la construction de l’identité de leur communauté que dans sa structuration symbolique et religieuse devront aider à lever l’interrogation, en suggérant des pistes de réponse et en déconstruisant quelques clichés et idées reçues.

Kostowa Alex, Independent ScholarOn the Origin of the World. Genealogy of the Jain Vision and Its Implications for Contemporary Pluralist Ontologies (in the light of passages from Mahāpurāṇa)The Jain myth of (non-)origination of the world in Mahāpurāṇa reveals one of the most profound ideas in the global intellectual tradition, since it discusses a mode in which we could think about creation without a Creator. In this text I aim to cast light on the basic assumptions of this idea, to discuss its ramifications beyond the field of myth and to outline its significance for the integration of Asian philosophy in the Western debate on pluralism. Thus, the aim of this text is twofold. First, I aim to discuss the Jain origination doctrine as well as the ontological and epistemological implications that follow from it. The myth of the (non-)origination of the world could demonstrate the “origins” of fundamental Jain philosophical concepts, an aspect that is insufficiently discussed in the philosophical literature on Indian thought. The myth of the non-creation of the world helps us to define the essential problems of Jainism, the means to achieve their solutions, and their practical implications for reaching liberation from the cycle of rebirths. Second, I will argue that the proposed view on the nature of the world as non-created opens the door for an elaboration of a metaphilosophical model for a productive dialogue between the Eastern and Western pluralist traditions. Here I shall address the assumptions behind the use of notions such as “the world” or “reality” that subsequently have implications for the implementation of a critique of the all-encompassing formulas in the different epistemic practices. This question is important given the fact that the concept of the world is crucial for the contemporary forms of pluralist and realist ontologies. Thus the elaboration of this notion proposes an alternative perspective on the theoretical basis for doing realist and pluralist philosophy.
Lameborshi L. Eralda, Stephen F. Austin State University Retelling Myth as Origin: Silenced Voices in the Margins of Myth Narratives
The narrative impulse for an origin story is evident in much of contemporary film and literature. No longer are readers and viewers strictly satisfied with the heroic and villainous deeds, but there is a desire to know those spaces that remain unknown and blank; the spaces that existed before the initiation of the hero or the villain. It is here where writers can inscribe new meaning that is relevant to the current cultural moment. This paper is concerned with the idea of beginnings not only as an origin story of a character in fiction, but also with the act of retelling myth as a point of origin. When we consider Madeline Miller’s Circe (2018) and The Song of Achilles (2012), David Vann’s Bright Air Black (2017), Margaret Atwood’s The Penelopiad (2014), Ursula K. LeGuin’s Lavinia (2008), and Tomi Adeyemi’s Children of Blood and Bone (2018), we can see that the act of retelling myth is an act of initiation of a silenced story, which ultimately opens up the possibility for groundbreaking critical perspectives on gender, sexuality, and race. These narratives seek to represent the origins of characters in world myth and cultures that are otherwise marginal and silent. In so doing, these narratives intervene in social discourse, and provide a study of cultural and historical frameworks from the margins of myth and narrative. Ultimately, the world of myth is characterized by a recursive desire to retell and reinvent, and this is, perhaps, its function: to serve as a primordial narrative ocean where each retelling is a point of origin, a birth, and a newly acquired perspective on the experience of being human.

Lentano Mario, Università degli Studi di SienaI fratelli di Romolo. Varianti scartate nel mito delle origini di Roma
Il mito delle origini di Roma presenta un racconto canonico e una miriade di varianti, che lasciano intravedere una ricchezza di elaborazione leggendaria i cui frammenti affiorano qua e là nelle fonti erudite. L'intervento mette a fuoco nel loro complesso tali varianti, provando a identificarne i tratti comuni e a individuare le possibili ragioni che ne giustificano l'insuccesso a vantaggio della versione risultata alla fine vincente.

Lino Mirko, Università degli Studi dell’AquilaIl miraggio e la caverna. La ricerca delle origini della visione cinematografica di Werner Herzog
Il cinema per Herzog si presenta come un infinito campo di indagine, dove vengono sondati i limiti della visione e dello sguardo, al fine di «penetrare l’impenetrabile e sormontare l’insormontabile» (Deleuze, 1984). Una delle caratteristiche del cinema di Herzog risiede nel caricare di segni il visivo, in modo da evocare una “verità estatica”, frutto di «stilizzazione, invenzione e immaginazione» (Herzog, 1999), che solleciti nello spettatore forme di conoscenza non razionali e difficilmente contenibili in regimi verbali. Il contributo che presento intende prendere in considerazione Fata Morgana (1970) e Cave of Forgotten Dreams (2010), come esempi della ricerca del regista di risalire alle origini della visione cinematografica. Fata Morgana è un road movie visionario, girato nell’Africa subsahariana. Le riprese degli infiniti orizzonti di sabbia e di luoghi primordiali ospitano le illusioni ottiche dei miraggi e la lettura di Lotte Eisner dei passi del primo libro del Popol Vuh, dove si narra la creazione del mondo per la cultura Maya. Si tratta di un film di montaggio, in cui si assiste allo scollamento tra la componente verbale e quella visiva, e il mito fondativo del mondo coincide con un visivo alla deriva e illusorio, prossimo a un primo sguardo su una pianeta in rovina. In Cave of Forgotten Dreams Herzog mostra le pitture rupestri rinvenuti nella cava di Chauvet, considerate tra le primissime tracce grafiche della civiltà umana. L’organizzazione formale dei disegni, l’irregolarità delle pareti, l’illuminazione fioca e intermittente della luce solare e di un’ipotetica torcia rimandano all’illusione del movimento: una sorta di mentalità “protocinematografica” già presente all’origine della cultura umana. I due film dimostreranno come l’uso di immagini evocative, adamitiche e dalla forte dimensione” estatica” (l’inganno del miraggio), permettano a Herzog di rintracciare il nesso tra miti fondativi della cultura umana (il Popol Vuh) e quello dell’origine del visivo cinematografico (la caverna di Platone).

Mäkelä Hanna, University of TartuRefusing to be comforted: Nature, Grace, and Gender in Norman Lear’s All in the Family and Terrence Malick’s The Tree of Life
In his 1817 play, Manfred, Byron writes "Sorrow is knowledge, those that know the most must mourn the deepest, the tree of knowledge is not the tree of life" (Act I, scene I, lines 11-13). A less Romantic and more feminine expression of the knowledge gained from deep mourning comes from The Hebrew Bible (Jer. 31:15), repeated in The New Testament (Matt. 2:18): “A voice is heard in Ramah, weeping and great mourning, Rachel weeping for her children and refusing to becomforted, because they are no more.” It is very easy to silence this feminine cry by either reducingit to mere biology (mother’s instinct) or abstract symbol (the mother-child relationship standing for some other relation, perhaps a very Byronic analogy of poet and his creative pain). In either case, “Rachel” becomes a cipher in the patriarchal system of binary hierarchies where woman is either pure animal or pure spirit. This paper will a make a case for the persistent maternal mourning of a filial victim as something that paradoxically transcends the religious and mythical gender binary. I will employ René Girard’s mimetic theory and “victimary” anthropology, as well as Adrian Thatcher’s theological gender studies in comparing two fictional works: the 1970s sitcom, All in the Family, show-run by Norman Lear, and the 2011 film, The Tree of Life, directed by Terrence Malick. Both Edith Bunker of All in the Family facing the murder of her young transwoman friend and Mrs. O’Brien of The Tree of Life shocked by the suicide of her son are analyzed as contemporary “Rachels” in their sorrow-as-knowledge.

Martellozzo Nicola, Università degli Studi di TorinoDie Welteislehre: Una cosmogonia per il Terzo Reich
Siamo abituati a pensare alle narrazioni sull'origine del mondo come a discorsi distanti da noi nello spazio e nel tempo. Chi non ha mai sentito parlare della Genesi, dell'archè dei filosofi di Mileto o della cosmologia Dogon? Tuttavia, lo scopo di questo contributo è proprio quello di mostrare come le cosmogonie non appartengano solo a società esotiche o lontane, ma si possano rintracciare fino al cuore dell'Europa moderna. Con questo intento, considereremo la Glazial-Kosmogonie di Hanns Hörbiger, una dottrina cosmologica “alternativa” elaborata nella prima metà del Novecento e che ebbe largo seguito tra l'élite nazista. Conosciuta anche come Welteislehre (World Ice Theory), la cosmogonia di Hörbiger si basa sullo scontro eterno di energie archetipiche - ghiaccio e fuoco - nella forma di immense stelle (Heißgestirne) e colossali pianeti congelati (Eisgestirne). L'origine della Via Lattea e del Sistema solare si deve all’incontro primordiale tra una super-stella nella costellazione della Colomba e un globo di ghiaccio attirato dal suo campo gravitazionale. Questa massa ghiacciata assorbì l’energia della stella, venendo scagliata nello spazio ed esplodendo, dando origine con i suoi frammenti all’intera galassia. La Glazial-Kosmogonie si caratterizza anche per una visione ciclica degli eventi cosmici e storici: l’attuale Luna è solo l’ultimo di una serie di satelliti che, periodicamente, sono stati attratti dalla Terra e hanno causato catastrofi ed estinzioni. Denunciata da fisici e astronomi come teoria pseudo-scientifica, la Welteislehre rappresentò una suggestiva ipotesi sull’origine del cosmo, nata da un’intuizione “mistica” dello stesso Hörbiger. L’élite del Terzo Reich, cercando un modello cosmologico alternativo a quello della “fisica ebraica”, trovò nella Glazial-Kosmogonie un pensiero intriso di suggestioni mitiche e posizioni razziali esplicite; il legame tra Welteislehre e nazismo mostra chiaramente come questa ideologia totalitaria, nel tentativo di rimodellare l’Europa con l’imposizione di un nuovo ordine, sia ricorsa ad una narrazione sull’origine di portata cosmica.

McIntosh-Varjabedian Fiona, Université de Lille (France)"Vitalisme historique et l'origine comme élection ou comme hasard"
L'étude partira de Mommsen et de sa représentation des peuples de la péninsule italienne qui auraient pu concurrencer les Romains mais qui, pour une raison obscure (prédestination ou hasard), n'ont pas pu connaître le développement glorieux des Romains. La présentation s'intéressera au modèle vitaliste présent dans l'historiographie allemande du 19e siècle, à l'idée du germe initial qui conditionne le développement futur d'un peuple ou d'une nation.

Medaglia Francesca, Università Sapienza di RomaIl mito come forma di narrazione originaria: le narrazioni complesse del transmedia storytelling
L’intervento si propone di indagare il mito come forma di narrazione originaria all’interno dell’universo transmediale contemporaneo. Le narrazioni complesse della transmedialità, con i loro universi espansi, sono ormai in grado di creare esperienze amplificate che si sviluppano attraverso diversi media. In questo senso, il mito può divenire l’asse portante della costruzione di questi nuovi universi in espansione. In particolare, l’attenzione di questo intervento si concentrerà sull’analisi del mito come modello di creazione letteraria sfruttato dalla transmedialità e, al contempo, sulla fluidità dello storytelling contemporaneo, in quanto portatore di strutture narrative innovative.

Meineke Eva, Università di MannheimSurrealismo e scrittura automatica
La prima guerra mondiale che ha comportato delle esperienze traumatiche per il soggetto funge da fermento per la scrittura automatica che vede la sua origineufficiale esattamente 100 anni fa, nel 1920, con la pubblicazione dei Champs magnétiques di André Breton e Philippe Soupault. Il surrealismo nella critica è generalmente visto come movimento francese sotto l’incontestata guida del pape du surréalisme André Breton. In realtà però, e questo sarebbe l’obiettivo scientifico di questo contributo, il surrealismo e la scrittura automatica ancora prima di vedere la loro nascita ufficiale nella Parigi degli anni 1920 originano in contesti periferici e migratori dell’Europa degli anni 1910 e si basano su scambi interculturali e intermediali (musica, arti visive, letteratura) nonché sulle nuove conoscenzenell’ambito della psicologia ma anche delle scienze naturali come la fisica (vedi i campi magnetici del titolo della prima opera ufficiale in écriture automatique). Concentrandosi su una scelta di opere datate 1919, tratte dalle letterature francese, italiana e tedesca, sarà tracciata una prospettiva europea sulle origini del surrealismoe della scrittura automatica che comprende, accanto ai già menzionati Champs magnétiques del contesto francese, Il rumore primigenio di Rainer Maria Rilke scrittoin lingua tedesca (Urgeräusch) e, della letteratura italiana, la Tragedia dell’infanziadel migrante europeo Alberto Savinio e Il passaggio di Sibilla Aleramo, una delle poche donne che sono riuscite ad affermarsi nell’avanguardia. Nell’Europa post-bellica le vere innovazioni artistiche derivano da voci che si situano in contesti di confine per poi essere tradotte nei grandi centri, in movimenti artistici come ilsurrealismo parigino, di impostazione decisamente nazionalistica e anchemaschilista, che rivendica queste nuove forme esclusivamente per sé. Sarannoanalizzati, nei testi prescelti, anche i riferimenti alla mitologia antica come anche le forme di utilizzo di elementi cosmologici capaci di creare un fondo culturalepropriamente europeo se non universalmente umano.

Merlo Roberto, Università degli Studi di TorinoThe historical-political myth in the Romanian National Discourse between the 19th and the 20th centuries
My paper aims to analyse the formation and evolution of the historical-political myth that shaped the Romanian national discourse between 19th and 20th centuries. Earlier configurations of this specific narrations of origins —which encapsulates ethno-anthropological-like mythemes such as the sacrifice, the golden age, etc.— appear in the Moldavian-Wallachian treatises of the 17th-18th centuries, but a fully-formed mythical narrative of origins emerges between the second half 18th and first half of 19th centuries, as a Latin one, through the activity the Romanian Greek-Catholic political and cultural milieu of Transylvania. Such Latin modern Romanian mythical narrative of origin will find favour also among the élites of the Danubian Principalities, becoming a major component of the historical-political discourse aimed at political independence and unity along the entire 19th century until IWW. Already partly shifted in the second half of the 19th century toward an “anti-Latin” direction, the historical-political mythical narrative of the origins opens up above all in the interwar period to new variations, ranging from the partial contaminations of Latinity with Dacian/Thracian substrate up to the complete rejection of Latinity itself, in the direction of an exacerbated, anti-western, anti-modern, xenophobic and racist nationalism. After the break marked by Stalinism in the 50s, those ideas will resurface during the nationalist turn of Ceaușescu’ regime in the 70s-80s. The methodological approach will be chiefly that of the French mythocritique school inspired by F. Brunel, and G. Durand’s anthropologie de l'imaginaire.

Monateri Valentina, Università degli Studi di Torino«There will be time to murder and create». Il 1915 e il racconto della creazione in Eliot e in Joyce
C’è tempo per creare e tempo per uccidere. Così T.S. Eliot rielabora il capitolo terzo del Qoelet, nel componimento che gli porterà più fama nel 1915 The love Song of J Alfred Prufrock, indagando con apparente leggerezza l’ambiguità della violenza insita nel racconto di ogni origine. Prima di scrivere L’Ulysses e The Waste Land, James Joyce e T.S Eliot, due «maestri dei moderni» secondo la felice definizione di Praz, si interrogano sui temi della Genesi e sui rapporti tra creazione divina e umana, nella ricerca di una nuova forma di espressione artistica. Influenzati entrambi dalle indagini di Pound sulla lingua delle origini, nel 1915 pubblicano due opere fondamentali per la loro futura produzione letteraria, due opere che sono all’origine del modernismo e che, quasi in un gioco barocco di specchi, rielaborano anche il racconto dell’origine. Scopo di questo intervento, quindi, sarà analizzare Portrait of the Artist as a Young Man e The Love song of J Alfred Prufrock facendo risaltare la narrazione dell’origine e dimostrando come proprio questa ricerca del senso dell’origine, dell’indagine sul principio rappresenti il primo passo verso una più matura forma d’arte, che solo sette anni dopo esploderà in tutta la sua potenza, influenzando pesantemente i successivi modernismi europei e americani e imprimendo, a parere di chi scrive, alla futura produzione narrativa e poetica novecentesca un’ansia dell’influenza di difficile esorcizzazione.

Montanari Luca, Università per Stranieri di PerugiaIl gergo dell’origine: la creazione tra filosofia e teologia in Emmanuel Lévinas
Nella prolifica opera intellettuale del filosofo ebreo Emmanuel Lévinas (1906-1995) l’idea di origine, pur non trovando un’esplicita elaborazione sistematica, fa da Leitmotiv a tutta la sua indagine in merito alla dimensione creaturale della libertà in rapporto al Creatore. Si mostrerà, in primo luogo, come la ri-semantizzazione del racconto biblico entro il contesto filosofico contemporaneo serva a Lévinas a delineare, entro il contesto della creazione ex-nihilo, un differente rapporto tra l’uomo e l’incoglibile origine del suo essere-al-mondo. Partendo da un concetto di origine che non coincide con un’idea cronologica di inizio, bensì con quella diacronica di un’antecedenza dell’eternità sul tempo stesso, si mostrerà la natura intrinsecamente plurale dell’idea di creazione. La pluralità, sia umana che cosmica, garantita nell’alfabeto ebraico dalla bet (lettera con cui si inaugura il racconto della Genesi), non pone per Lévinas l’origine sotto il segno di un’unità intellettualmente conoscibile, piuttosto indica in questa originaria separazione tra Dio e uomo la promessa di germinazione dello stesso stato creaturale sotto il segno del Suo amore. In secondo luogo, infatti, si mostrerà come l’idea di origine che ci restituisce Lévinas istituisca l’uomo ad una dimensione di finitezza che inaugura la sua stessa libertà proprio attraverso quella paradossale relazione che fiorisce nella sua separazione con Dio; un’antecedenza diacronica del Creatore che si ritira per far sì che il creato sia. In ultimo, avendo già da subito connesso il tema dell’origine a quello della molteplicità e separazione, mostreremo come in esso sia già da sempre inscritta la responsabilità etica nei confronti del prossimo; movimento garantito proprio dal prodursi di questa separazione dal Creatore come correlato dell’impossibilità, per il soggetto, di un ritorno all’origine che rimane presente solo come traccia.

Montori Irene, Università Sapienza di RomaFiat lux and the Origins of Sublime Poetry: Milton’s Dialogue with Dante and Tasso
“God said—what? ‘Let there be light’ and there was light,” writes Longinus in his famous tractate Peri Hupsous (9.9). The quotation from Genesis 1:3 is of undeniable interest, not only for the presence of the Scriptures in a Hellenistic rhetorical tract, but also because Longinus merges the classical parallel of divine and literary creation with the concept of the sublime. The fiat lux citation in chapter nine of Peri Hupsous points out the author’s inventive power to construct a poetics of the divine. In linking sublimity with the biblical style, Longinus lays the foundation for a metaliterary reflection on poetic creation and the rewriting of the Scriptural origins.By focusing on Milton’s version of the biblical fiat lux, this paper addresses the sublime in Paradise Lost as a catalyst to the formation of an authorly voice. Sublimity translates not only a rhetorical style, but a kind of elevation and a transformative moment of consciousness in the text, the reader, and the author alike. In his aspiration to literary greatness and creative excellence, Milton responds to classical and modern canons of the sublime, thereby placing himself in dialogue with two illustrious Italian models, Dante and Tasso. Despite Milton’s indebtedness to Tasso’s concept of maraviglia and to Dante’s sublimity in Paradiso, the author of Paradise Lost distances himself from his Italian predecessors and locates the sublimity of the origins into a more dialogical, if not dialectical, compositional model. From a broader perspective, this paper aims to illustrate the centrality of the poetics of the sublime in fashioning early modern literary theory and authorship.
Musillo Marco, Independent ScholarSilent Descriptions as Origins: Semantic and Symbolical Paths towards the King of Tree
From the lenses of the real and figurative tree, my study explores cultural discourses connecting natural forces to the formation, narration, or suppression of archetypes. I follow two trajectories,one circular epitomized by the written language, describing the tree; and one linear, unfolding as an individual metaphysical experience of such a natural form. In particular I look at the Chineseencounter between the human being and the tree in order to investigate the fracture dividing the described tree, employed to understand natural processes, and the tree as mute cosmic presence not reducible to human narratives. Here, I look at the short novel written in 1985 by Ah Cheng, Shu Wang (The King of Tress), in order to discuss the tree as marker of the dialogue between the manifest and the latent that structures the basic life processes. Protagonist of the novel is an old tree representing what is sacred and inviolable, which, however, is not protected by cultural claims or rituals to support its nature. The narration of such a lack sheds light on the opposition between primeval knowledge and stupidity or rational knowledge, and thus hints to an experience of mute archetypes which are removed in order to create new semantic signs and vocal symbolic forms.From this perspective, this investigation also looks at other significant contexts of destruction-protection-knowledge of origins from poetics describing the relationship between humanity and nature. Among the themes composing such a framework, I examine cultural contexts in which things, that are directly displaying their cosmic nature, are thought of having the power to ridicule human intellect. This is within a paradoxical process in which what comes from outside the mind can appear as human statement of the transcendent otherness of nature.

Nardoni Pierluca, Università degli Studi di BolognaOrigini futuriste di una grotta: note sulla Caverna dell’antimateria di Pinot Gallizio
Nel 1959 Pinot Gallizio concepisce per la parigina Galerie Drouin la Caverna dell’antimateria, un ambiente spaziale votato alla polisensorialità. La critica del periodo e quella successiva colgonosoprattutto rimandi ai compagni di strada situazionisti, ma, sebbene lo stesso Gallizio non li affermiesplicitamente, gli appunti e l’ideazione dell’Antimateria lasciano emergere numerosi richiami al Futurismo italiano: nei suoi scritti preparatori si sente l’eco polemica dei Manifesti che in alcuni casi trovano persino una realizzazione a inizio secolo imprevedibile, come avviene per La pittura dei suoni, rumori, odori di Carlo Carrà (1913) “tradotta” nelle enormi tele che avvolgono la Caverna, rese odorose e rumorose grazie a speciali resine e a un theremin che interagisce con gli spettatori. Anche i costanti riferimenti teorici di Gallizio a una tecnologia che muta in profondità il comportamento umano provengono dal Futurismo, così come, sul piano della prassi artistica, la tensione del suo environment a uno spazio reagente e attivo trova le sue radici nello spettacolo e nell’“arte totale” di Balla e compagni. L’intervento si propone dunque di analizzare il senso e le fonti di una discendenza parzialmente occultata. La regressione primordiale della Caverna e la fiducia modernolatrica del Futurismo nella velocità e nel “dinamismo universale” hanno infatti molto in comune e propongono una narrazione condensata da Gallizio in una specie di contro-mito delle origini che rovescia il più noto mitoplatonico: se per il filosofo ateniese la grotta era un archetipo legato a una conoscenza tutta noetica e ideale, per il Gallizio dell’Antimateria e per i futuristi l’azione estetica deve restituire all’uomo un fondamento antropologico fortemente sensoriale, che trova le sue radici nel corpo e negli aspetti sensibili della percezione.

Natali Ilaria, Università degli Studi di FirenzeIntertwining origins: James Joyce’s works, Dante’s Divine Comedy, and the Immrama
James Joyce’s claim that “Italian literature begins and ends with Dante” is hardly a novelty for Joycean scholars. Today, however, recent manuscript acquisitions at the National Library of Ireland allow a re-evaluation of this statement: the new documentation reveals that the ‘beginning of Italian literature’ also laid the foundations for Joyce’s writing career, as the Divine Comedy provided the first generative impetus for his literary creativity. As early as 1899, when still a student in Dublin, Joyce wrote some annotations on Dante’s Inferno in twenty-eight notesheets (now MS 36,639/1), which have remained largely unexplored. Joyce’s earliest surviving notes offer invaluable insights into the origins of his predominant stylistic hallmarks and testify to a very precocious development of his (almost obsessive) interest in the potentialities of language. Even more significantly, the “Dante notes” can be viewed as the starting point of an investigation into ancient myths and legends about voyage and exile, a quest which Joyce undertook for at least a decade. In fact, manuscript 36,639/1 indicates that Joyce continued to analyse the Inferno and rework his annotations after he moved to Trieste in 1905; some time before 1912, as suggested by an article written for Il piccolo della sera, he also engaged in the study of the Divine Comedy’s alleged sources, probably influenced by Pasquale Villari and Stuart Boswell’s essays on Dante. Therefore, it is through the mediation of Dante’s Comedy that Joyce accessed the immrama, medieval Irish stories of the Otherworld such as the voyages of Bran (Immram Brain) and the Navigatio Sancti Brendani Abbatis, which were later subtly appropriated in both Ulysses and Finnegans Wake.

Negi Shachi, Department of Humanities and Social Sciences, DIT University, Mussoorie DehradunAchieving Cosmic Consciousness, a higher stage in Man’s Evolution: Traces in Mahabharata and Findings from a case study of Pandav Nritya in Northern Himalayas
Human significantly is a combination of physical, mental and emotional side of a being. He is better than any animal in all aspects but above all more consciously evolved. According to theory of evolution we, humans are evolved from amoeba by overcoming the constraints and achieving ultimately the human stage. But still there are lacking in becoming fully evolved having full control over physical, emotional and mental. In modern times, we trace remedies by enhancing outside mediums of technology but the development of technologies/machines should not be necessary seen as the development of any man. Doubtless to say our societies are evolving but the real development of any society relies on the development of its being. In the present context, it seems that achieving cosmic consciousness is the highest aim of man’s evolution. In the book five (Udyog Parva) of Mahabharata, the description of battle field given by Sanjay to Dhritarashtra expresses the reference of an evolved awareness who merelygiving attention through his conscious to the battle field knew the live-status of the war. In the present backdrop, paper will study pandav nritya a popular folklore of northern Himalayas in India where the priest invokes spirits of Pandavas, heroes of Mahabharata. Villagers come to seek solutions for their problems from them which they answer and resolve. In the present context, the paper is an attempt to find the possibility of existence of metaphysical entities who constantly assist in gaining the higher self of consciousness.

Negre Alain, Independent ScholarThe Archetype of the Number and its Reflections in Contemporary Cosmology
Since the remotest times, men have seen in the natural numbers much more than the quantities used today in the mathematical functions of enumeration and calculation. Number in its archetypal or qualitative sense is surrounded by a halo of meaningful principles, open to an infinity of possible interpretations, while its quantitative aspect is what remains after the successive reductions that came along with the formation of the mathematical edifice. Just as astronomy and chemistry draw from astrology and alchemy, mathematics has its origins in numerology or number mysticism, a lineage acknowledged by Karl Popper who wrote: “All – or very nearly all – scientific theories originate from myths, and … a myth may contain important anticipations of scientific theories.” According to Carl Jung and Wolfgang Pauli, physics is intimately related to psyche at a deeper level of reality. Mental and material states are dual aspects of an underlying reality that itself is neither mental nor material, a psychophysically neutral reality reminiscent of an ancient philosophical notion called “unus mundus.”The number is for Jung, the “most primitive element of order in the human mind” or “an archetype of order which has become conscious.” According to Marie-Louise von Franz, “the preconscious aspect of natural numbers points to the idea of a numerical field in which individual numbers figure as energic phenomena or rhythmical configurations.” While qualitative aspects of the number belong to a different level of reality, they may reflect in the interpretation of modern cosmological models. We will explore the possibility of reflections of Three and Four within the narrative that stem from the prevailing standard model, fitted with some speculative theories involving quantum gravity and emergence of consciousness. Standing out of the surrounding flow of cosmological events, a 4×3 numerical fourfold structure attracts attention. It could bring about a new way of thinking in cosmology that would help to reconceptualize the world and make sense of life and consciousness.

Nencetti Virginia, Università degli Studi di Torino“Tief ist der Brunnen der Vergangenheit”. Thomas Mann alle origini della tradizione: il modello biblico come archetipo economico in Joseph und seine Brüder
“Profondo è il pozzo del passato”, forse insondabile. Con questa frase si apre ciò che è stato definito l’opus metaphisikum di Thomas Mann. Nella mastodontica riscrittura biblica, Mann si pone il problema delle origini della modernità, andando a ricercare proprio in quel passato biblico che gli apparteneva solo in parte la ragione d'essere del contemporaneo. Se la questione del modernismo di Mann è sempre aperta, accettata e accertata è la capacità dello scrittore di aver saputo sondare il racconto biblico per ivi ritrovarvi le radici del moderno. Nelle storie di Giuseppe la fede è sorgente di potere, potere che si esprime in una centralità economica la quale permette di vedere nello sviluppo dell’azione un più ampio discorso economico in divenire fin dalla prima parte dell’opera (Die Geschichten Jaakobs). Ciò che ci si propone con questo intervento è quindi mostrare come nella tetralogia Joseph und seine Brüder, e in particolare nella sua ultima parte Joseph der Ernährer, Mann utilizzi la mitologia biblica come lente per osservare e raccontare la realtà a lui circostante. Specificamente, l’intento è approfondire gli spunti suggeriti da Brennan (Thomas Mann and the business ethic, 1985, 401-407) e Pütz (A Companion to the Works of Thomas Mann, 2004, 176-179), in riferimento a Giuseppe come precursore del modello affaristico e del discorso economico di inizio secolo con particolare riferimento alla figura del faraone Akhnaton.

Ornaghi Massimiliano, Universitàdegli Studi di TorinoNati dalla terra, e non: le origini delle stirpi greche nel mito
La comunicazione tratterà dei miti di fondazione delle principali poleis greche (Atene, Sparta, Tebe ecc.), evidenziandone le differenze. Particolare attenzione sarà riservata al confronto tra i miti di autoctonia e i miti invece basati sulla agglomerazione o sostituzione di stirpi: di entrambi si valuterà la eventuale utilità politico-propagandistica e, dunque, la probabilità che tali miti siano stati promossi in determinate fasi della storia delle rispettive città per autorizzare precise linee di politica internazionale.

Orzel Joanna, University of Łódź (Poland)Greek-Roman mythology in the mythology of the Polish Lithuanian Commonwealth (15th – 18th century) – Inspiration, Influences, References
Western European states found their roots in antiquity during the early Middle Ages. Their alleged ancestors were to be especially heroes of the Trojan War and their relatives (e.g. Aeneas, Faramund, Brutus of Troy). At the beginning of the Renaissance “younger Europe” desired to reach the Western European countries. Therefore, the Eastern European statesbegan to “look for” the oldest beginnings, and the chroniclers began to invent a tradition. The mythical founders of the Kingdom of Poland (Lech) and the Grand Duchy of Lithuania (by the way, Roman – Palemon/Publius Libon) were compared to Romulus, Aeneas, but also Jason, Ulysses or Dido. In the Lithuanian founding myth even was used the motif of the wolf, which was probably inspired by the story of the wolf that nursed and sheltered Romulus and Remus. In addition, prophetic dreams of the founding fathers during their travels to new countries – the new promised land – were described. The nobility from the Polish-Lithuanian Commonwealth was raised and educated (above all in religious colleges, mainly Jesuit and Piarist) in love with antiquity. The nobility often sought connections with the ancient Roman Empire. Most often these references were used in literature to add prestige to the native mythical founding fathers. They were comprehensible to the noble community. “Lechiada” were created on the model of “Aeneid” or “Franciade”. Sometimes, however, comparisons with Greek-Roman mythology were used to legitimize the political system – mainly the monarchy, as the rule of one person. Interestingly, even the criticism and negation of the founding fathers was based on Greco-Roman mythology. In the eighteenth century, Gottfried Lengnich stated that the founders of Poland and Lithuania were only invented, and the names of the states or tribes were created from names, as happened to Hellen and Hellens, Achaiaos (Achaeus) and Achaia or Romulus and Rome.

Pacchiani Nathalie, Université de Corse Pascal PaoliL’Origine, genèse de la création. L’artiste méditerranéen: entre mythe et religion.
S’il est un lieu qui démontre toute la richesse et la complexité de l’ORIGINE n’est ce pas la méditerranée ? Cette mer « au milieu des terres » effleure les côtes italiennes, celles du sud de la France, entrainant dans les sillons de ces embruns l’Espagne, la Grèce, le Maghreb, le Moyen Orient… Terreau fertile de la mythologie et des textes bibliques, fondateurs de la construction du monde et de la pensée, elle façonne « l’homo méditerraneus » dont l’identité particulière mêle tragédie et passion, douceur de vivre et lucidité. Alors que les concepts nature/culture s’opposent dans la tradition critique moderne, l’étude comparatiste de quatre grands artistes méditerranéens (3 écrivains et un artiste contemporain) font de l’Origine la matière même de leur création. Ainsi, Paul Valery décrit dans son œuvre une Méditerranée dont la position stratégique offre des « mélanges de sang, de vocables, de légendes ou de traditions »construisant au fil du temps une pensée universelle, Albert Camus puise de cette « patrie des mythes », une écriture solaire qui prend sa source en Grèce, non pas dans le chaos d’un logos non maitrisé, mais par une discipline de l’esprit, une « pensée de midi » qui prône l’équilibre et l’harmonie des contraires. L’œuvre de Nikos Kazantzakis quant à elle atteste du combat incessant de l’artiste issue de racines ancestrales, transcendé en quête spirituelle entre le corps et l’esprit. Jean-Paul Marcheschi, peintre et sculpteur tel Héphaïstos se munit d’un pinceau de feu pour faire surgir une lumière inattendue de ses paysage de suie et de fumée, d’où surgit l’Origine : « cette faille, cette interruption de l’histoire et du temps, comme si elle était le lieu d’un deuil impossible de nous même, enfoui, lointain, oublié.»

Paich Slobodan Dan, Artship Foundation, San Francisco (USA)Inception – Emergence – Continuum (Artship Project)
Vitality and relevance of ancient and historic knowledge for contemporary culture and education are main commitments of Artship Projects. The paper is based on over 40 years of Artship Scholarly research feeding the contemporary art practice and Artship Art practice offers context for inquiry-based expression: 1. Protennoia: The First Thought / Ancient Gnostic TextPatricia Cordoba, Contemporary Mexican Artist's response2. Origins of ancient measures based on human bodyArtship Ensemble Tarantella, Tarantula, Dance Drama with narration based on oral histories3. Origins of Omphaloses Navels of the WorldPresented at The Birds Evolution, Paleontology, Archeozoology, Arts and Environment 2018 conference and Narrative Moments Workshop bringing obscure histories' resources as starting pointsfor individual responses 2019, both in Portugal4. Bask Mythic Maru and Mari primordial union aboveAtlantic beach at CompostelaLesser-known mythologies and histories research of Artship Foundation with narrative potential5. Contemporary Theater on the Lake Concept based on First Principal’s Loneliness MythWinner, 1974 competition and exhibition Art into Landscape Conclusion offers reflection on experiential needs and cultivation of Sapient Metaphorical Thinking and Symbolizing Abilities and the role Sense of Origins play in general cognitive, cultural and interpersonal development.

Pallaracci Lucia, Università degli Studi di PerugiaOltre la finzione: Cosmogonia e distopia politica ne Gli Uccelli di Aristofane
Gli Uccelli di Aristofane (414 a.C.) catapultano lo spettatore in uno spazio e in un tempo cosmico in cui una generazione di nuovi presunti dèi, gli Uccelli, attraverso una verbale teomachia,sconfigge gli dèi olimpici e succede loro. Pisetero, grazie alle sue capacità persuasive, riceve lo scettro di Zeus e fonda un nuovo kosmos.Lo studio tenterà innanzitutto di dimostrare come l’ortogoniadegli Uccelli (Av. 685-768) e la creazione di un nuovo bislacco ordine universale sia funzionale alla legittimazione di una nuova sovranità, altrettanto strampalata: quella di Pisetero, che, da vecchio esule, alla fine della commedia si ritrova investito del ruolo di alter Zeus. La formulazione di un nuovo ordine del mondo sul piano mitico, religioso ed etico soggiace all’ambizione politica di Pisetero. In secondo luogo, si analizzerà il kosmos retto da Pisetero e dagli Uccelli. Nubicuculia, la città fondata a mezz’aria per volontà di due ateniesi fuggitivi, Pisetero ed Euelpide, solo apparentemente è il luogo dell’evasione dall’apragmosyne di Atene e dell’utopia. Essa risulta piuttosto una distopia, un doppio peggiorativo di Atene, che ne porta al limite estremo alcune reali aspetti politici e sociali. L’indagine si focalizzerà principalmente sulla prima parabasi, contenente l’ortogonia degli Uccelli, sull’ipotestoesiodeo e sulla descrizione tucididea degli eventi degli anni415/414 a.C. Porterà alla luce alcuni degli elementi storico-politici dell’Atene di fine V sec. che potrebbero aver ispirato la distopia e indagherà la loro deformazione nel nuovo, distopico kosmos degli Uccelli.Nello specifico, rintraccerà nella creazione di un kosmos non fondato su dike, ricco di nomoi empie, un effetto dell’ipertrofia dell’apparato giudiziario ateniese; nell’etica e negli abitanti di Nubicuculia un riflesso del problema degli esiliati da Atene, anche in seguito al recente scandalo delle Erme (415 a.C.); nella dimensione cosmica della commedia l’amplificazione del sogno espansionistico siciliano.

Pangallo Maria Consolata, Università degli Studi di Torino
Il contributo cervantino alla nascita del genere novellistico. Il caso de El amante liberal
Una delle pratiche cervantine più affascinanti è la rielaborazione dei canoni dei sottogeneri letterari. In quest'occasione mi soffermerò sull’inserimento di alcuni elementi precipui del genere bizantino, in particolare di Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio, ne El amante liberal. La novella in questione anticipa caratteristiche e prospettive, spesso in chiave parodica, che verranno nuovamente e maggiormente elaborate da Miguel de Cervantes nella costruzione del suo ultimo lavoro, Los trabajos de Persiles y Sigismunda.

Panov Serguei, Université National de Technologies MISIS (Moscow)D’Ovide à Borges: les illusions d’origine
Ovide dans sa prosopopée polythéiste donne dans ses « Métamorphoses » une répétition des événements magiques qui consistaient à transformer des divinités inférieures par la volonté des dieux souverains dans des animaux ou les plantes pour pouvoir confirmer la toute-puissance des dieux anthropomorphiques et réaffirmer l’origine de la culture dans un ensemble des sources objectivées des désirs humains qu’on figure sous les apparences des forces polythéistes. La préharmonisation des perceptions, des désirs et des actions de l’homme aux effets des motivations déjà aliénées et objectivées dans un panthéon se trouve contestée par la littérature moderne. A l’origine de la culture Borges considère, sans aucun doute, une dynamique de la conscience symbolisante qui s’avère un vrai sujet de sa critique intellectuelle et artistique. La conscience symbolisante est une conscience qui traduit ses propres réflexes dans les soi-disantes ontologies naturelles, c’est-à-dire projections transcendantales qui ne correspondent pas au sens de la réalité. Ces projections établissent l’identité de l’être et de la pensée, en donnant naissance aux attitudes naturelles de perception, de pensée et de l’action. Dès son plus jeune âge, le héros du récit «Les tigres bleus» ressent un penchant naturel de contempler les tigres. Il transforme cette inclination en un réflexe sublime de sa conscience, puis en un projet de sa recherche. Il surmonte les stéréotypes de la tradition littéraire (Blake, Kipling), qui reliait l'image du tigre aux forces négatives de l’être et partait à la recherche de vrais tigres bleus. Le bleu est une couleur qui n’existe que dans l’imagination, car le héros voit les tigres bleus dans ses rêves. Ce n’est pas sans raison que Borges introduit dans le récit la fascination du héros par des tigres bleus comme première étape de l’évolution affective et réflexive de sa conscience symbolique. En fait, cette étape signifie un retour à la contemplation de l’animal totémique et de sa couleur intense, car le totémique symbolisait un remplacement du sacrifice humain qui était censé garantir la satisfaction des besoins essentiels du groupe ethnique. Le culte de l’animal totémique a ainsi réglé les relations sociales au sein du groupe et du groupe avec le monde extérieur par le biais d’interdictions relatives à l’inceste et à la mise à mort de membres des tribus. Par conséquent, le totémique de Borges exprime un fantasme littéraire de l’identité de l’être et de la pensée, d’un stimulus et d’une réaction, un fantasme d’un stimulus, dont la perception sert en soi de réponse gratifiante de la nature à la conscience réactive.

Pedrón Alonso Diana, Universitat de BarcelonaMundus, origine del mondo. Immaginazione cosmologica nella storia del mondo
Dalle Vite di Plutarco sappiamo che il rituale mundus organizzava la vita simbolica e politica della città romana (Plutarco, 1821). Questo concetto, che deriva dal termine greco kosmos, sviluppato da Platone nella sua Repubblica, dimostra che il modello di pianificazione territoriale romana era, fondamentalmente, un modello concettuale cosmologico (Rykwert, 1976). Allo stesso modo in cui kosmos designa un ordine che è inseparabile dalla bellezza, il concetto di mundus implica una dimensione estetica: pulizia, ordine e chiarezza (Dardel, 1952). Nella produzione sia letteraria che artistica, l'immaginazione medievale del mondo diede continuità al senso originale, prima che questo sperimentasse una radicale risignificazione all'alba della modernità. Mundus Novus è il titolo della lettera presumibilmente scritta da Americo Vespucci nel 1502, in cui raccontava le incursioni spagnole nei territori americani. La massiva diffusione di questa narrazione innescò, in soli sei anni, una complessa rielaborazione delle configurazioni territoriali e la produzione di un nuovo spazio globale, materializzatosi nella famosa mappa di Martin Waldseemüller del 1506, dove quel territorio si nominó per la prima volta in Europa. Ma oltre a ciò, il testo di Americo Vespucci è stato letto anche come un invito a immaginare una nuova cosmologia, una nuova forma di società e di organizzazione del mondo (Ginzburg, 1976). Nel 1791, in una nuova svolta epocale, l'artista Giandomenico Tiepolo dipinse un meraviglioso affresco nella sua villa privata a Zianigo intitolato Mondo Nuovo. Quest'opera è stata interpretata come la fine di un mondo storico (Agamben, 2015) e un gesto di benvenuta alla rivoluzionaria storia contemporanea (Zotti, 2004). La lanterna magica che dà il titolo all'opera di Giandomenico Tiepolo potrebbe essere considerata la profezia di un'imminente rivoluzione culturale, in cui l'intreccio delle arti avrebbe permesso di creare cosmologie insolite per immaginare non solo il nostro mondo ma anche molti altri: il cinema.

Pellegrino Isabella, Université Sorbonne - Paris - Università degli Studi di PerugiaFictionnaliser l’origine: "Le Quatrième Siècle" d'Édouard Glissant et "Texaco" de Patrick Chamoiseau
Comment raconter les origines dans la région - la Caraïbe - « qui combine tous les effets le plus destructifs et les plus violents du procès colonial » ? Est-il possible de fonder une communauté à partir des bribes d’autres communautés déportées d’ailleurs ? Par quelle conception du monde subjacente ? On entamera quelques réflexions initiales pour essayer de répondre à de telles questions par une analyse narrative, symbolique et linguistique des deux romans éponymes. D’abord, tout en annihilant les populations autochtones antillaises, la colonisation a produit des sociétés nouvellesdont les expériences de la violence et de la traite, d’ailleurs communes à la plupart des contextescoloniaux, sont des éléments constitutifs. Encore, le phénomène de domination est d’autant plus destructif et divisif aux Antilles que le maître blanc a pris pendant des siècles le soin de séparer les esclaves appartenant au même groupe linguistique. Et pourtant, des traces du « pays d’avant », le « long pays infini pour lequel ils n’avaient pas de mots et qu’ils ne ressentaient certes que comme une absence », restent actives et jouent un rôle dans la constitution d’un nouveau modèle de communauté, qui est produit par les chocs et les divisions provoqués par le fait colonial, et en même temps cherche à le dépasser. Ces deux romans seraient donc des mythes d’origines, non pas dans le sens de « cris poétiques » qui, dérivant de la dictée d’un Dieu, affirment l’auto-conscience naissante d’une communauté homogène, mais en tant que prise de parole participant d’une nouvelle conception du monde (ou mythologie), faite de cultures composites et d’identités plurielles.

Piantanida Cecilia, Durham University‘Radix, Matrix’? Metaphors of Origins in Twentieth-Century Writing
The image of roots appears as a recurring metaphor of origins across languages, signifying beginnings and belonging. Since antiquity the tree with roots and branches has been used as a powerful symbol of human life. From the nineteenth century biologists have also employed the image of the tree as an evolutionist model. Today the tree-roots image is still one of the most common models through which individuals and communities map time, and in particular their past and multiple ancestries (Zerubavel 2003). The metaphor representing origins as the roots of a tree carries a conceptual model that shapes people’s ideas of time as linear and their experience of belonging as relating to a particular place, thus affecting notions of self and identity. Since the 1980s, however, competing thought models (most popularly Deleuze and Guattari’s ‘rhizome’ model of multiplicity) have challenged the roots metaphor and its tree-like conception of human life, deeming it essentialist and hierarchical. Looking at various case studies such as Antonia Pozzi’s Radici (1935), Paul Celan’s Radix, Matrix (1963), Hélène Cixous’s Photos de Racine (1994) and Gabriella Ghermandi’s Regina di fiori e di perle (2007) the paper investigates how metaphors of (un)rootedness across languages and cultures negotiate the, often fraught, relationship between individual subjectivities and wider-scale genealogical conceptualizations of origins. The study thus aims to contribute new knowledge to our understanding of the location and formation of individual and shared identities.

Piergiacomi Enrico, Università degli Studi di TrentoErmeneutica del Caos. Pierre Gassendi e la poesia cosmogonia di Esiodo
Lo scopo dell’intervento è ricostruire l’interpretazione che il filo- sofo cristiano Pierre Gassendi (1592-1655) offre del mito cosmogonico del Caos primigenio, raccontato soprattutto nella Teogonia di Esiodo. Il tema è studiato dall’autore nel capitolo De primaevo exortu, primave genesi, et constitutione rerum della sezione fisica del suo Syntagma philosophicum. Si tratta di un’opera uscita postuma, ma che raccoglie i risultati degli oltre 30 anni di ricerca di Gassendi sull’atomismo epicureo. In quanto cristiano e atomista, Gassendi dovrebbe apparentemente re-spingere la Teogonia. Il Caos primigenio sembrerebbe contraddire, infatti, tanto l’atomismo, perché identifica il principio del reale nella materia in- forme che acquista un ordine per stati progressivi e non nelle forme atomi- che, quanto il Cristianesimo, giacché parla della nascita di molti dèi dal di- sordine. In realtà, lo sguardo al capitolo sopra citato del Syntagma mostra che l’atteggiamento di Gassendi è più complesso. Egli pensa che la Teogonia possa servire a correggere la fisica epicurea, che incorre qui in alcune tesi empie, tra cui l’eternità delle forme atomiche, o l’aggregazione di que- ste senza controllo divino. Più nello specifico, argomenterò due punti decisivi. Anzitutto, Gassendi pensa che la Teogonia sia il corrispettivo pagano del racconto biblico della Genesi. Il poema esiodeo combacia paradossalmente col testo sacro, quando riconosce che il mondo ha raggiunto il suo ordine definitivo per stati progressivi (= i sette giorni della creazione) e grazie a una forza divina. D’altro lato, Gassendi sostiene che il Caos possa essere una buona immagine poeti- ca per riferirsi alle combinazioni degli atomi dapprincipio mescolati confu- samente e poi portati all’ordine sommo dalla volontà di Dio. Il Caos della Teogonia sarebbe così oggetto di un’ermeneutica cristiana. Gassendi razionalizza il mito cosmogonico per rimediare alle esagerazioni empie di Epicuro. Gli atomi sarebbero l’alfabeto con cui Dio scrive il mon- do e rende possibile il passaggio dal Caos all’ordine dell’universo.

Pinto Angelo, Gustav Mahler Research Centre, University of Innsbruck “Painting the creation in tones”: la rappresentazione delle origini come “metafora epistemologica” nella Universe Symphony di Charles Ives
La comunicazione sarà incentrata sull’analisi degli schizzi del manoscritto della Universe Symphony del compositore Charles Ives (1874-1954), rimasta incompiuta alla sua morte. Attraverso questa disamina cercherò di scorgere in questo materiale testuale alcuni parallelismi tra l’ispirazione del compositore ed i modelli cosmologici della fisica coeva.

Pireddu Nicoletta, Georgetown UniversityAffective Archaeologies of the Future: Europe, from the Myth to the Institution
An idea in search of its roots, a geo-political entity constantly renegotiating its boundaries and authenticity, an institution begging for emotional legitimacy, the trope of “Europe” has inspired a rich, centuries-long discourse involving multiple disciplines. My paper explores verbal and visual representations of the origin(s) of Europe, focusing on the foundational myth(s) of “the Rape of Europe” and the “Tower of Babel” as overdetermined reservoirs of concepts and affects that shape the European cultural and political identity, with different aims at different epochs. Through selected works drawn from literature, the arts, and the social sciences, I show how those archetypical European “stories” have promoted specific emotional dispositions as propellers of actions and reactions across ideological and cultural fronts. Attention to this intertwining of passionate investments and discursive practices hence allows a more productive investigation into the long trail of emotions that, with more continuity than caesurae between past and present, have fostered what I define as Europe’s affective economies. In light of Sarah Ahmed’s discussion of emotions circulating between bodies and signs and aligning subjects together or against one another, I linger on emotional transactions that are shaped by the mythical origins of Europe and respond to the Europe-building process by creating a feeling subject and an affective space. I ultimately contend that the conformism of much Euro-scepticism, by reductively presenting Europeanness as a political project devoid of emotional substance, tarnishes the constructive potential of Europe’s attempted mobilization of passion, which gains its propelling force from its mythical narratives and images.

Popov Tamara, Università di BelgradoL’age d’or. Le fantasme virgilien comme le principe constructif de la Tempête de Shakespeare
Notre recherche a pour but d’établir la relation intertextuelle entre la création du nouveau monde présentée dans la Quatrième bucolique de Virgile avec l’invention de l’âge d’or faisant partie de la pièce dans une pièce de la Tempête, dernière œuvre de Shakespeare. Pour la réalisation de cet objectif, il faut prendre conscience que le principe constructif ne repose ni sur les influences historiques possibles entre les deux auteurs ni sur l'analogie textuelle. Ayant à l’esprit le rapport entre l'Antiquité et la Modernité et le clivage spatio-temporel, – et considérant la Thégonied’Hésiode de prototexte –, nous essayerons de nous focaliser principalement sur la notion de l’anagogie, introduite dans les dialogues platoniciens. Surpassant le monde sensible, Virgile et Shakespeare nous menent vers l’ascension de notre esprit, en nous proposant la vision ambiguë, même paradoxale de la question de l’origine, ainsi faisant des récipients les co-créauteurs des propres intermondes fasmatiques. Est-ce que l’individu représente l’espoir pour l’humanité parce que l’espoir se trouve dans l’âme de l’individu? Si la consolation qu’on cherche en Autrui n’est que la peur de soi-même, comment ensuite se consoler? Quel est le rôle des espaces idylliques dans la cosmogonie? Or, dans l’arkhê était la Parole? Ce sont quelques-unes des questions auxquelles ce texte tend à proposer des réponses possibles.

Pozza Marianna, Università Sapienza di RomaFrom creation to use: the echoes of linguistic transparency and the myth of the origin of an isomorphic correspondence between forms of thought and forms of language in ancient Indo- European languages
Human beings have always been fascinated by the origin of language and by the relationship between form and meaning of a linguistic sign. The idea of a motivation, of a transparency, of a one-meaning one-form relationship could, in fact, better explain the “creative process” of a word.As far as the correspondence between the two faces of the linguistic sign is concerned, also that between the “pure thought” and the “pure sound” is realized, and the Creation itself is in fact imagined as a “magical verbal process”. This can include, for example, cases such as the IE root *bhā-, for which an original meaning ‘to shine’ is proposed and which, in several ancient IE languages, is continued with the meaning ‘to say’, or Lat. dicō ‘I say’, if from IE *dey- ‘to shine’ + *-ḱ-, hence ‘to make (the extralinguistic referent) shine’. After all, it’s through the sight that we understand things, and the consequence of vision is knowledge (cf. Gr. ὁράω ‘I see’, οἶδα “I have seen”, hence “I know”), and it’s through perception that we understand (cf. Lat. sapiō ‘to have flavor’ but also ‘ to know’, or oleō, ‘to smell’ ‘to exhale a smell’ but also ‘to perceive a smell’, demonstrating the close correspondence between experience and its linguistic manifestation.The aim of the contribution is to describe some examples of “transparent” linguistic expressions created through “natural” mechanisms and cognitive strategies which are able to reflect the cognitive processes of the human being, exploring in particular some ancient texts dealing with the origin of language and some cases of “basic” linguistic semantic metaphors with which humans have been dealing since the beginning of time, according to the idea that the origin and the functioning of language is somehow a “natural” process, as a pattern of “linguistic creation”.

Primo Novella, Università degli Studi di CataniaOvidio, Leopardi e oltre. Ri-Scritture dei miti delle origini
Due anni dopo la stesura dell’Inno ai Patriarchi, o de’ principii del genere umano (1822), Giacomo Leopardi si misura nuovamente con la rappresentazione delle origini dell’umanità nell’operetta Storia del genere umano (1824) in cui viene ‘rimossa’ la visione scritturale della colpa originaria dell’uomo a favore di un’originalissima reinvenzione della «favola antica» a partire dai modelli classici, in primo luogo dalle Opere e i giorni e dalla Teogonia di Esiodo (in parte tradotta dal Recanatese), ma soprattutto dal primo libro delle Metamorfosi ovidiane. Si intende pertanto proporre una lettura comparata tra il testo di Ovidio e quello leopardiano, sia mediante larilevazione di alcuni significativi rimandi testuali (si cita – a titolo esemplificativo – il seguente passaggio: «Vix ita limitibus dissaepserat omnia certis» (Met. I, 69) / «i più di loro si avvidero che la terra, ancorché grande, aveva termini certi») che attraverso l’analisi contrastiva della strutturadelle due fabulae. In Ovidio si possono individuare quattro fasi (passaggio dal caos al cosmo; successione di quattro età; diluvio; ricostituzione della specie umana per opera di Deucalione e Pirra), presenti anche in Leopardi che però diverge significativamente nella semantizzazione dei cambiamenti di forma. Per il poeta di Recanati infatti la creazione del mondo, così come i mutamenti successivi, sono motivati dal desiderio di rendere l’uomo più felice, anche se sortiscono l’effetto opposto dal momento che la condizione umana è ontologicamente (e biblicamente) inscritta entro un destino di sofferenza. Un particolare approfondimento sarà dedicato alle principaliriscritture del mito di Deucalione e Pirra, magistralmente reso sia da Ovidio che da Leopardi, per poi soffermarci cursoriamente su alcune riprese del mito dal Roman de la Rose sino alle versioni musicali per il teatro dei secoli successivi, come quella di F. G. Bertoni secondo il testo di A. S. Sografi (1786) o le arie parodistiche nell’opera comica di A. Montfort (1855).

Prosenc Irena, Università di Ljubljana Storie naturali: narrare la creazione tra mito e scienza
Il contributo prende in esame i racconti di Storie naturali in cui la riflessione sulle origini e sull’atto creativo è affrontata da molteplici punti di vista. In merito alla creazione degli esseri viventi viene proposta una mitologia alternativa in cui la “tradizione centauresca” prende il sopravvento su quella biblica (Quaestio de centauris): il procedimento creativo raccontato consiste di incroci tra diverse specie da cui risultano anche esseri mitologici e fiabeschi. Tra le forme animate e inanimate esiste una barriera sottile che non può prevenire delle convergenze (Cladonia rapida). La creazione dell’uomo (Il sesto giorno) è narrata in un’ottica straniante come una faccenda puramente burocratica, mentre l’aspirazione verso forme di vita avanzate assume connotazioni sinistre (Angelica Farfalla). In alcuni casi la creazione “dal caos, dal disordine assoluto” si traduce in ricreazione di modelli (L’ordine a buon mercato, Alcune applicazioni del Mimete). Un gruppo di racconti (il ciclo incentrato sul signor Simpson, La bella addormentata nel frigo, Versamina) interpreta la creazione come un atto inventivo che, in apparenza, si presenta come tecnologico, ma i cui particolari tecnici rimangono misteriosi dal momento che vi prevale la “philosophy dell’apparecchio”. Un altro aspetto è la creazione poetica che è al centro di riflessioni metaletterarie accompagnate da connotazioni ironiche (Il Versificatore e altri testi). La presente indagine mira a esaminare i modi in cui Levi narra l’atto creativo instaurando rapporti intertestuali con elementi mitologici tra cui primeggia il riferimento a Prometeo. Viene definito “prometeico” il Mimete, e un “piccolo prometeo nocivo” un personaggio che ne abusa per duplicare la propria moglie e creare così la prima donna sintetica, mentre il signor Simpson si lamenta del fatto che le sue invenzioni non abbiano ricevuto il dovuto apprezzamento identificandosi con Prometeo: “Inventi il fuoco e lo doni agli uomini, poi un avvoltoio ti rode il fegato per l’eternità”. La narrazione leviana delle origini unisce in sé tanto elementi mitologici quanto quelli (pseudo)scientifici, in un connubio ossimorico che apre spazi a connotazioni ironiche

Puglia Francesca, Università di BernaThe “Taiyi sheng shui” and the role of Water in Chinese Ancient Cosmogonies
The Taiyi sheng shui 太一生水 is a Chu state bamboo manuscript written in Warring States China, approximately around 300 BCE, and unearthed in 1993 in the Hubei province. Within a tradition of texts in which, in most cases, the first substance to be generated during the process of cosmogenesis is qi 氣 (vital breath), the Taiyi sheng shui is distinguished by having water, shui 水, as the first unitary and homogeneous principle to arise during the cosmogenesis. The aim of this paper is to highlight the reasons why water played a central role within the cosmogonic tradition of ancient China. In the case of Taiyi sheng shui, in the role of the first principle generated by Taiyi: water precedes and triggers the subsequent birth of the multi-faceted reality of the Ten Thousand Things, through a process of production of pairs of opposite and complementary elements (such as shen 神 and ming 明, and yin 阴 and yang 阳). Water owes its place as the first cosmogonic material element to its indispensability for the existence of animal and plant life, both in a biological sense and in its agricultural employment. This is also the reason why qi, the first material principle in numerous other cosmogonic texts, is also rooted in the concept of water and vapor. Furthermore, its formlessness and homogeneity not only perfectly represent the characteristics of a first material principle which is not yet differentiated into the many facets of the different beings, but are also employed in order to characterize and define the chaotic, void and motionless state that precedes and causes the coming into being of reality and of the first material principle itself, either with explicit reference to water as a metaphor or the use of characters with water radicals.

Ragni Cristiano, Università degli Studi di GenovaShakespeare’s Demiurge. New Origins in The Tempest
Shakespeare’s The Tempest is famously considered as a sort of “echo chamber” of the various motifs the playwright had dealt with in his previous works. It has not been underscored enough, however, how much this play is also an “echo chamber” of the most important classical myths of the Western tradition. In this regard, I will underscore how Shakespeare set Prospero’s story against the background of Plato’s myth of the Demiurge and the utopian Golden Age he had read about in Ovid’s Metamorphoses. Particularly, by analyzing the new beginning that Prospero makes possible for himself and his daughter Miranda, I will show how Shakespeare did indeed infuse some of the features of Plato's Demiurge in the characterization of Milan's exiled Duke. By highlighting the connections between origin myths and myths of sovereignty, my contributionwill show how The Tempest stands out as one of Shakespeare’s deftest re-writings of the classical cosmological works.

Rak Michele, VMP – Virtual Museum of Photography (by The European Community)European Tales. L’immaginario fiabesco come fondamento dell’identità europea
Le fiabe sono un fattore identitario per tutte le culture. Sono portatrici di profili sociali, di etiche, di norme, di azioni, di saperi delle comunità. Un esteso corpus di fiabe ha circolato per circa 1.000 anni nei paesi europei in varie forme e con 6 caratteri dominanti: i) la sua circolazione è senza confini territoriali (neanche di lingua), ii) i suoi testi sono passati tra culture diverse e gruppi sociali con varie trasformazioni e adattamenti, iii) i suoi testi sono flessibili, poco sorvegliati dalla società letteraria e dalle sue varie forme di censura e divieti, iv) i suoi testi sono stati manipolati per rispondere ai vari bisogni identitari delle comunità e alla loro necessità di trasmettere immagini, regole, proverbi, intrecci con carattere di exemplum, v) i suoi testi hanno raccolto e assemblato materiali cognitivi da tutte le altre tradizioni del racconto, vi) i suoi testi sono stati un ponte neutrale tra tradizioni del racconto orali e scritte, tra gruppi sociali diversi all’interno della stessa cultura e tra culture diverse, (vii) sono stati frequentemente trasmessi con l’appoggio dell’immagine e dello spettacolo (di strada e di sala) favorendo la penetrazione anche tra gli analfabeti e i non-lettori di personaggi, azioni, oggetti, pratiche. La fiaba è stata il genere del racconto (i) di più ampia diffusione tra i paesi europei, (ii) ha circolato senza sostanziali censure e divieti, (iii) è stata variamente adattata e manipolata per venire incontro alle esigenze delle comunità nelle diverse aree e epoche.

Renna Salvatore, Università degli Studi di Bologna – Università degli Studi dell’AquilaProblems of Power. Prometheus and (post-) Modern Technologies
Since from what is told in some of the most important texts of ancient Greek mythology, such as Hesiod’s Theogony and Aeschilus’ Prometheus Bound, Prometheus is a complex figure, deeply linked with the origin of technology and civilization. His deeds and his personality became a symbol of the relation between man and nature, as well as between human beings themselves, especially when they are involved in the progress of technology. Even in the modern and contemporary times, Prometheus has been the mythological figure through which enhance new inventions or, conversely, challenge new relations of power and knowledge created by the progress of science. Moving from these assumptions, this paper will investigate some of Prometheus’ technological rewritings, and it will especially show how, in different times and contexts, it has been used as a powerful symbolical way to reflect upon the most important technological changes in human history.

Reinhardt Jelena Ulrike, Università degli Studi di PerugiaNella gabbia di Kafka e Canetti. La metamorfosi della scimmia all’origine della cultura
Nel XIX secolo diventa sempre più rilevante il tema della ricerca delle origini. Riflessioni fondamentali in tal senso furono espresse da Charles Darwin in The Origin of Species (1859) e in The Descent of Man (1871). In parte proprio sull’onda del successo di tali studi, la ricerca delle origini divenne urgente anche in altri ambiti. Del 1872 è il lavoro di Friedrich Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, che segnò una tappa fondamentale nella dibattuta questione sulle origini del teatro. Scienza e teatro, o meglio sapere scientifico e pseudoscientifico insieme alla teatralità come atto performativo, sembrano costituire il materiale di ispirazione di opere letterarie e di tanta produzione iconografica. Sulla base di questa combinazione, prendendo le mosse da alcune testimonianze iconografiche, si cercherà di analizzare il racconto di Kafka Ein Bericht für eine Akademie (1917) e il romanzo di Elias Canetti, Die Blendung (1935), e in particolare un suo capitolo intitolato “Ein Irrenhaus”. In entrambi itesti ci vengono presentate delle figure in metamorfosi, ibride, nelle quali i confini tra uomo e scimmia risultano labili. Seppure le due metamorfosi procedono in direzioni opposte – la scimmia che diventa uomo e l’uomo che diventa scimmia –, il fine ultimo di entrambe sembra essere la libertà, una libertà che però si rivela in tutta la sua problematicità. Infatti, la fuga dalla gabbia, sia concreta sia in senso metaforico, non sempre coincide con una liberazione. I due testi, che si presentano come riletture del mito delle origini della cultura tra nostalgia di un passato lontano e critica nei confronti del progresso, si rivelano come fondamentali riflessioni sulle dinamiche di potere alla base di tante narrazioni delle origini.

Rocchi Federica, Università degli Studi di Firenze“Hai lasciato metà dei tuoi capelli in Alamania”. Origine e dislocamento in Emine Sevgi Özdamar
Il fenomeno migratorio porta con sé problematiche di identificazione delle personalità letterarie che a tale contesto appartengono, nonché dei generi di scrittura stessi. Le espressioni della letteratura del dislocamento trovano una propria collocazione proprio nei processi di passaggio da un luogo all’altro. Pertanto, gli autori che vanno incontro a fenomeni di transculturalità e translinguismo meritano un ripensamento classificatorio in senso transnazionale, che di conseguenza ci porta a modificare categorie fortemente legate all’origine quali Heimat (patria) e Nation (nazione). Vincitrice del prestigioso premio tedesco Chamisso per autori stranieri, Emine Sevgi Özdamar (1946-) si è resa un’interprete significativa della letteratura translinguistica contemporanea. La metafora del ponte, ad esempio, alla quale ricorrono frequentemente anche altri autori legati a contesti transnazionali, si attua in Emine Sevgi Özdamar attraverso il collegamento fra la Turchia, sua terra d’origine, e la Germania, Paese che l’ha accolta e nella cui lingua l’autrice sceglie di voler scrivere.Al di là della condizione subalterna e delle problematiche relative all’integrazione – tematiche ampiamente presenti sia nei suoi romanzi sia nelle sue pièce teatrali – un grande ruolo viene affidato da E. S. Özdamar alla riflessione sulla lingua. Che si tratti del turco, sua lingua madre, o del tedesco, sua seconda lingua – come si evince perfettamente in La lingua di mia madre (Mutterzunge) – l’autrice ci dimostra dunque di essere localizzabile solo all’interno di uno spazio mobile, che per quanto le impedisca di uniformare la propria cultura e la propria lingua, le consente tuttavia di provare all’infinito a ricomporne i frammenti.Con questo contributo, si intende dunque presentare l’opera di E. S. Özdamar sulla base delle sue riflessioni sulla transculturalità e sul concetto di origine, le quali, partendo da resocontiautobiografici del dislocamento, giungono a plasmare il ruolo dell’autrice come ponte tra culture.

Romagnoli Marta, Università degli Studi di TorinoSi le grain ne meurt: il racconto delle origini come modello di iniziazione e rinascita nella riscrittura Le retour de l’enfant prodigue di André Gide
Nel 1924, André Gide pubblica il romanzo autobiografico Si le grain ne meurt, il cui titolo, attiva una doppia memoria testuale: da un lato, i versetti 12, 24-25 del Vangelo di Giovanni, nei quali si annuncia la necessità di morire per rinascere a nuova vita, dall’altro la «Ronde de la grenade» che apre Les Nourritures terrestres, romanzo pagano e sensualista (Wittman, Commente, 2005, 14). I due riferimenti intertestuali richiamano il dilemma interiore fra la volontà di abbandonarsi all’istinto e al piacere sensuale e l’obbligo di dover rispettare le leggi morali introiettate attraverso l’educazione familiare e religiosa. Tale conflitto, che alimenta tutta l’opera gidiana, viene spesso rappresentata attraverso l’immagine del chicco, che può essere di frumento, di melograno o di sale, secondo suggestioni sia bibliche sia classiche (Masson, Les trois grains d’André Gide, 2001, 407-419). Nel racconto Le Retour de l’enfant prodigue, il melograno selvatico, rappresenta simbolicamente da un lato, la mancata rinascita del figliol prodigo, il quale non è riuscito, come il chicco di grano, a morire, a spogliarsi del suo passato, degli insegnamenti morali e religiosi ricevuti dall’educazione familiare, per poi rinascere, e, dall’altro, la promessa per il fratello più giovane, che si accinge ad abbandonare la casa del padre, delle gioie di una vita vissuta alla ricerca di un’individualità autentica. Scopo di tale intervento è pertanto, a partire dall’immagine del seme, analizzare i temi della rinascita, dell’iniziazione e della ricerca di sé presenti nella riscrittura gidiana Le retour de l’enfant prodigue. L’intervento si concentrerà in particolar modo nel mettere in luce l’importanza del discorso delle origini nello sviluppo del dilemma morale posto al centro dell’opera gidiana e nell’analizzare i tratti formali che, a nostro parere, avvicinano Gide alle correnti moderniste europee.

Ruffinatto Aldo, Università degli Studi di TorinoOrigini della novella in Spagna (sulle tracce della monaca traviata)
Il tema della monaca traviata, noto nella tradizione spagnola come “la leggenda di Beatrice o della sagrestana”, affonda le sue radici nella letteratura esemplare del medioevo e, in particolare, nelle raccolte di miracoli della Vergine Maria esemplate in varie parti d’Europa per lo più da monaci benedettini. Ci si propone qui di seguirne il percorso evolutivo dalle origini fino al teatro e alla novellistica dei Secoli d’Oro osservando, in particolare, le strategie adottate da due autori spagnoli dell’epoca (Lope de Vega e Alonso Fernández de Avellaneda) per trasformare l’exemplum medievale in un prodotto teatrale (La buena guarda di Lope de Vega) e, successivamente, in novella (Los felices amantes, nel Chisciotte apocrifo di Avellaneda).
Rutigliano Stefania, Università degli Studi di BariIIl Golem: creazione letteraria e identità ebraica
Le fonti confluite nel racconto della formazione del Golem (Salmo 139, 16, Genesi 1,26-27 e 2,7, Sanhedrin 38 b del Talmud babilonese, Genesi rabbah 8,1 e 24,2, Sefer jetsirah e Sanhedrin 65 b) provano che, già nella tradizione mistica ebraica in cui ha origine, l’uomo artificiale rimanda alla creazione di Adamo nel più ampio orizzonte della genesi dell’universo. Lo stesso rituale di creazione e distruzione del Golem, ricalcato sul Sefer jetsirah, stringe un nesso tra l’origine del mondo descritta nel trattato cosmogonico (attraverso le combinazioni delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico e delle 10 sefirot) e la creazione dell’uomo d’argilla, sottolineando il ruolo essenziale del linguaggio per l’atto creativo (fatto che spiega il destino letterario del Golem e la funzione vitale della parola ’emet – verità per animarlo). Dopo aver ricostruito i momenti decisivi dell’evoluzione dell’idea del Golem nell’antica tradizione mistica ebraica, intendo mapparne le costanti e le varianti presenti nella ricezione letteraria europea e americana (J. Grimm, Achim von Arnim, Annette von Droste-Hülshoff, E.T.A. Hoffmann, C. Brentano, C. Bloch, L. Weisel, F. Klutschak, B. Auerbach, L. Kompert, D. von Liliencron, G. Meyrick, J.L. Borges, F. Torberg, J. Mühlberger, L. Perutz, N. Sachs, P. Celan, I.B. Singer, E. Wiesel, C. Ozick, M. Piercy), seguendo laprospettiva imagologica. I racconti, le poesie, i romanzi (accanto alle opere teatrali e ai film) che elaborano il Golem saranno osservati come traccia dei rapporti fra ebrei e non ebrei, come momento di riflessione sugli effetti dell’antisemitismo, come linea di tensione irrisolta tra reale e trascendente. La rilevanza dell’aspetto imagologico nelle versioni del mito golemico mostra che l’insopprimibile domanda sulla creazione da sempre intrecciata alla storia dell’uomo d’argilla si secolarizza, proprio come avviene nel passaggio del Golem dalla mistica alla letteratura, declinando la domanda di senso dall’essere all’esserci, dall’interrogativo sulle origini alla possibilità di una giusta convivenza umana lontana dagli orrori della storia.

Sanseverino Luca, Università degli Studi di Torino«C’è una voce nella mia vita, / che avverto nel punto che muore»: il ritmo come luogo di origine e morte nella poesia di Giovanni Pascoli
«Pronunziavano essi, i primi uomini, con lentezza uniforme, con misurata gravità, la difficile parola che stupivano volasse e splendesse e sonasse, e fosse loro e diventasse d’altri, e recasse attorno l’anima di chi la emetteva dopo lunga meditazione» (Pascoli, Il fanciullino, 1992, pp. 35-36). La poetica del Fanciullino è in prima istanza una poetica della voce quale prassi ontologicamente fondativa del soggetto e dell’esperienza umana. Il Il Fanciullino è, in altre parole, «l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente». (Il fanciullino, p. 32). Tali considerazioni contribuiscono a rafforzare il carattere parziale e riduttivo di un'interpretazione del linguaggio pascoliano centrata unicamente sul fonosimbolismo, sulla presunta iconicità dei tratti formali e sul supposto aspetto mimetico di certo lessico pregrammaticale, che i più accorti studiosi dello stile e della metrica di Pascoli hanno messo in crisi già da tempo. Scopo di questo studio vuole essere allora quello di ricondurre una appropriata e puntuale analisi dei tratti formali dei testi di Myricae a quella dimensione sorgiva e originale del linguaggio del poeta di Castelvecchio che Giorgio Agamben ha identificato come luogo del «mitologema della voce, della sua morte e della sua memoriale conservazione nella lettera». (G. Agamben, Pascoli e il pensiero della voce, 1992, p. 21).

Saule Angelina, St. Petersburg State UniversityEros: The Origin of Poetic Experiments in Modernism. A Comparative Approach
My paper offers a comparative analysis of erotic desire as the origin of the poetic revolution that defined Modernism. The innovations that took place in the works of Velimir Khlebnikov (Russian-speaking), e.e.cummings (English-speaking), Nizar Quabbani (Arabic-speaking), helped liberate ‘Eros’, thus becoming a phenomenon that acquired the status of a global, intercultural phenomenon that can be anchored with the help of the aesthetic category I term "Erotosphere". Erotic desire in the works of V. Khlebnikov, E. Cummings, N. Qabbani serves as a learning model for aesthetic experience, and the poetry of the Modernists itself acts as a cognitive mechanism that complements the philosophical instrumentation, thus creating a kind of linguistic-epistemological cognitive symbiosis. This symbiosis inevitably institutes a new literary tradition, Modernism, which shifted the poetics of erotic desire, spawning a revolution in poetic language and generating a mythopoeia of metaphor that goes beyond the limits of expressivity known to the previous generations of poets and philosophers. In Modernism, traditional notions of the continuous, the unified, the coherent, were replaced by a language of the interrupted, the plural, and the incoherent. The figurative language used, as well as wordplay, breakdown of syntax, mixture of the profane and sacred registers, allusions, parody or semantic displacement, are examined to identify how a new meaning and expression of erotic desire are constructed through the materiality of language.
Iole Scamuzzi, Università degli Studi di Torino
La novella prima della novella: interpolazioni impertinenti
L’exemplum di eredità latina evolve in racconto inizialmente all’interno di una cornice, retorica o narrativa. Ad esso si affiancano, in epoca medievale, le raccolte di racconti di origine orientale tradotti dall’arabo in spagnolo. Una breve serie di passi tratti da manuali di devozione, epistolografia e trattatistica illustrano come la narrazione breve in prosa intrecci le sue origini con generi letterari destinati a morire, lasciandole il proscenio.

Sguazzotti Camilla Adelaide Creazioni parallele e contrarie. La parodia della creazione e delle Sacre scritture nei racconti di Primo Levi
L’intervento si propone come ricognizione dell’opera di Levi alla ricerca delle declinazioni parodiche e fantastiche delle Sacre Scritture (Genesi in particolare), le quali tramite il loro valore fondativo fungono da serbatoio di materiale da plasmare, maneggiare e rimaneggiare per dare forma e collocazione agli interrogativi di un mondo rovesciato e alle speculazioni ironiche sull’origine del mondo e della vita. Il tema della creazione dell’uomo e del mondo è intimamente collegato al fango: può essere elemento primigenio inerte che necessita di essere plasmato, oppure fertile e spontanea alcova della vita. Attraverso l’analisi di alcuni passi si intende puntualizzare l’evoluzione diacronica di questo tema nell’opera di Levi: caratteristica fondamentale del paesaggio polacco in Se questo è un uomo e assunto antipodico rispetto alla «demolizione di un uomo», alla «controcreazione» operata dai nazisti; elemento da cui rinasce la vita dopo Auschwitz nella Tregua, «simbolo del caos primigenio da cui la Divinità ha tratto l’ordine, caos verso cui tutto può sempre ritornare» (Belpoliti); reagente usato dalla divinità per creare arbitrariamente l’uomo, annullando i tentativi delle divinità-tecnici di produrre un modello razionalmente ottimizzato di uomo e a favore di una creazione “tradizionale” in Il sesto giorno; fertile sostanza primigenia per la nascita primordiale di Quaestio de centauris; sostanza fondamentale per il rabbino Arié nella sua creazione in diminutio ne Il servo [ma attenta, qui è qabbalah, combinatoria, quasi cibernetica, genetica]; mitica origine della vita che unisce letteratura, scienza e religione nell’articolo Nelle vicinanze non si vede un altro Adamo, dove le tradizioni di Levi si saldano inossidabilmente consacrando la poltiglia informe come possibile fonte della vita.

Silvano Luigi, Università degli Studi di TorinoThe Fabulous World of Annius and the Origins of the Italian cities
This paper will focus on the Antiquities (Antiquitates, 1488) of Giovanni Nanni (vulgo Annius) from Viterbo, one of the greatest masterpieces of forgery ever composed. With the aim of demonstrating the noble pedigree of his own hometown, Viterbo in Northern Lazio, which he claimed to have been founded by the biblical Noah himself, Annius quoted lots of previously unknown ancient sources: indeed the majority of these – such as textual fragments of Greek and Latin historians, Egyptian hieroglyphs, Etruscan, Latin and Lombard inscriptions, and more – had been fashioned by Annius himself, who was clever enough to insert them into a plausible historical discourse (plausible at least for his contemporaries, that is). I will analyse Annius’ strategies of falsification and attempt a comparison with other Renaissance writers of forgeries.

Spezia Lorenzo, Istituto Teologico di AssisiUna cerimonia dei nativi Hopi e la nascita della filosofia
Ho avuto il privilegio di assistere, la scorsa estate, ad una cerimonia organizzata dai nativi Hopi nel villaggio di Shungopavi (Second Mesa, Arizona). Si trattava, al dire dei nativi, di una “danza della pioggia”, la quale in realtà metteva in atto un completo dramma psico-cosmico. Il rito ha occupato una lunga estensione di tempo, a partire dalle 10 circa del mattino (almeno nella sua parte visibile ai non iniziati – la preparazione di esso in effetti è cominciata all’interno dei kiva all’alba) fino all’ora del tramonto, avvenuto alle 19 circa; si è svolto a diverse riprese. Ad ogni ripresa del rito si potavano sulla piazza del villaggio circa centoventi danzatori mascherati da kachina, che formavanodanzando, sotto la guida esperta di un maestro di cerimonia, una spirale ellittica con l’apertura che si rivolgeva, nel procedere della danza, nelle quattro direzioni corrispondenti ai lati della piazza. Vari nativi si addentravano via via nel percorso a spirale tracciato dai danzatori, usufruendo delle aperture, fino a giungere ad uno dei fuochi dell’ellisse, nel quale era piantato un piccolo albero cheveniva cosparso di faina di mais, con l’evidente intenzioned’incoraggiare la fecondità della terra. Verso ora di pranzo, un gruppo di personaggi, denominati dai nativi clowns, hanno fatto la loro irruzione sulla scena. Erano cosparsi di terra, ed evidentemente caratterizzati da un modo di fare rude e provocatorio, oltre che adatto ad attirare l’attenzione dei partecipanti e suscitare il loro riso e la loro curiosità. Ma lo scopo principale dei clowns si è presto manifestato: distrarre i kachina dal loro compito di mantenere l’equilibrio cosmico, e fecondare loro stessi la natura, così da ottenerne il primato. Nel contesto dei loro tentativi a ciò volti, uno degli stratagemmi usati è stato quello di bloccare il corteo dei kachina all’uscita dalla piazza, intrattenendo un complesso momento dialettico con il maestro di cerimonia (essi infatti, quando periodicamente si ritiravano dalla piazza, uscivano sempre dallo stretto vicolo posto sul lato nord est).Questa variopinta e godibilissima scena mi ha fatto ripensare a come si ritiene sia nata la tragedia greca (originatasi dagli antichi riti in onore di Dioniso, probabilmente dal canto di uno di partecipanti al rito che era vestito da capro, proprio come i kachina hopi erano abbigliati in modo somigliante a ctoni animali; o i clowns erano ricoperti di fango, a simboleggiare una ferina vicinanza alla terra). Ho pensato che dovette essersi originata da un rito in qualche modo simile a quello che stavo osservando. Il “capro” potrebbe esser stato un membro del corteo divino aventelo scopo di equilibrare l’ordine cosmico e così consentire l’opportuna fecondazione della terra (così come Dioniso con il suo dramma consente la rinascita della natura), oppure anche uno spirito inquieto e clownesco, fuoriuscito dall’ordine cosmico e tentante di fecondare la natura per suo conto, impedendo gli dei nel loro compito – sappiamo bene come i riti dionisiacicomprendevano anche un ampio ruolo riservato a personaggi in atteggiamenti selvaggiamente animaleschi. Ripensando poi a come Giorgio Colli, in varie opere, ben delinea il percorso che porta dal rito sacro alla dialettica della filosofia, mostrando come proprio l’atteggiamento della dialettica si origina, per tramite di alcuni passaggi, da alcuni eventi vissuti nel corso del rito e da alcune sue caratteristiche, mi è apparso evidente il significato originario del momento rituale da cui la filosofia, tradizionalmenteconsiderata un esercizio puramente razionale contrapposto ad un rito misterico, potrebbe in realtà esser sorta: il dialogo fra coloro che tentano si bloccare l’ordine cosmico per divenirne protagonisti, e i custodi dell’ordine che comprendono l’irrealizzabilità del desiderio clownesco, e tentano a loro volta di reinserirlo nel loro gioco, per renderlo realizzabile in modo efficace.

Stelzer Philip, LMUSpace Oddities – Epic Origins and the (un)representable Totality
In 1968 Stanley Kubrick released his science fiction epic 2001: A Space Odyssey, one year before the moon landing and even before the iconic picture of "Earthrise" was taken on Christmas 1968 (cf. Cosgrove 1994, Poole 2008, Lazier 2011). In my presentation, I claim the interrelation and friction of the repeated and iterated beginnings in Space Odyssey with the (new) imagination of the world as a whole. For this reason, my aim is to demonstrate Kubrick's intertextual allusions to epic cosmogonies, origin stories, and the literary tradition of the epic in general, as a genre targeting and representing "einheitsvolle Totalität" (Hegel 2016, p. 373) in itself. The film starts with a great number of figurations of the beginning: the change from darkness to light in the opening sequence, followed by a combination of sunrise in music and film, and finally "The Dawn of Man" as its first chapter. Besides the allusion to the epic tradition in the title of Space Odyssey (cf. Wolf 2013 and 2014), this first chapter draws back to aitiology by explaining the origins of technology in the most famous match-cut of film history. Why is there such an accumulation of new beginnings, and why is Kubrick referring to origins at all? Between the analeptic and proleptic parts of the film, with its repeated new beginnings, and the striking exclusion of the present, the genuine time structure of Space Odyssey leads to a defamiliarization of the present (cf. Jameson 2007, p. 286). Thus, the representations of the earth in different scales shown in the film produce a new, defamiliarized perception of totality within an era of intensified and accelerated processes of globalization. Although the iconic view back to Earth seems peaceful and sublime, it is anything but neutral and innocent because of the constituent connection of the epic genre with imperial politics (cf. Quint 1989 and 1993). How repeated beginnings serve as founding fictions in epic poems in general, and in Space Odyssey in particular is what is at stake here. For this reason, I want to focus my presentation on the form and function of the beginnings for the representation of the earth and the construction of a (new) world.

Strauss Clay Jenny, University of VirginiaOrdering the Cosmos
In his Theogony, Hesiod’s surprising introduction of Chaos as protiston and his line suggests a serious attempt to trace cosmogony to first principles and to posit the prerequisites that allow cosmogony to proceed.  The new beginning that is inaugurated with the triumph of Zeus involves a shift from cosmogony to cosmography, whereby the elements of the evolved and stabilized order are reconfigured no longer in genealogical terms, but henceforthspatially with certain forces, especially the dark brood of Night, consigned to their respective locations in the underworld.  The archai reappear with Chaos in the underworld, now reconfigured and bounded by Tartarus below and Gaia above; within Chaos to be found the roots, springs, and limits of Earth and Heaven, Pontos and Tartaros all in a row. According to Hesiod, then, the first beginnings do not disappear, but continue to exist in their primal forms in the evolved and stabilized cosmos. Hesiod thus seems to hint at two modern physical theories: the conservation of matter and ontology repeating phylogeny.

Tarkka Lotte, University of HelsinkiCosmogony in vernacular imagination and beyond. Textualization of Finnic cosmogonical narratives in the Kalevala
In my paper I will investigate the mythic images behind the cosmogonical narrative presented in theepic Kalevala (1835/1849). Elias Lönnrot created this literary national epic by using Karelian and Finnish oral poems as his sources. The epic opens with the creation of the universe and the birth of the hero Väinämöinen, and ends with the advent of Christianity.In textualizing the oral poems and compiling the epic Lönnrot used the oral sources liberally, and constructed a myth of his own. He invented agents and deities and named them according to etymologies of his choosing. He combined cosmogonical poems with lyric lamentations and incantations used in childbirth thus creating a generic hybrid unknown to his sources. This myth was supposed to legitimate the emergent national culture and, ultimately, the creation of a nation. The paper discusses Lönnrot’s ideological decisions as politics of textualization in which decontextualized vernacular texts and notions were appropriated for the purposes of the elite. In the oral sources, cosmogonical narratives and mythic imaginaries related to the origin of the universe and the birth of mankind are instances of vernacular imagination, in which diverse concrete notions of creation are combined. Lönnrot’s source material, the oral aetiological poemsportrayed creation or emergence in many ways: as transformation, growth, spatial movement, agency (such as craftsmanship) or parturition. The multifaceted notion of emergence was further diversified by the creolized vernacular belief system still valid in Finnic cultures up until the nineteenth century. Elements from archaic hunter-gatherer belief systems, shamanism, and Christianity complemented each other and resulted in a multivocal and elastic symbolic system. In building his literary creation myth Lönnrot distorted the vernacular notions of emergence and introduced abstract notions such nothingness, void, and creation ex nihilo. By introducing abstract notions into the creation myth he constructed a new hybrid myth of the Finnish nation as a civilization with a noble, monotheistic mythology.

Tenti Laura Teresa, Independent ScholarL’alba dei Monti Blu tra indigenità e resilienza
Archetipi e singolarità sulle origini cosmogoniche e antropogoniche contraddistinguono l’immaginario di diverse popolazioni aborigene dei Nilgiri o Monti Blu, nell’India del sud. Per i Toda, una popolazione dravidica di pastori e allevatori di bufali, i miti delle origini sono rintracciabili e identificabili nel paesaggio e restituiscono permanenti rimandi alle concezioni religiose e identitarie: è il paesaggio stesso a divenire mythscape e mindscape in cui gli dèi e gli antenati lasciarono tracce indelebili nei monti, nelle rocce e nei corsi d’acqua. Durante questa sorta di Dreamtime le divinità e gli uomini vivevano insieme, gli animali parlavano agli umani e la morte non esisteva. Queste “ierofanie delle origini” si configurano come mappe mentali e strumentoidentitario rispetto al problema del land grabbing, della profonda trasformazione antropica dei Nilgiri e dell’assimilazione nel mainstream induista. I miti delle origini rivivono anche nelle espressioni artistiche materiali dei Toda: ne è un esempio il mantello tradizionale, spesso indossato come una toga romana i cui disegni, ricamati a mano dalle donne, costituiscono un richiamo simbolico della creazione. Questo indumento, insieme al loro aspetto fisico simile a quello di patriarchi biblici, generò una forte fascinazione circa le loro origini misteriose, oltretutto alimentata un mito che vede nascere la prima donna Toda dalla costola di un uomo. La mitopoiesi generatasi da un sito rupestre realizzato - secondo gli Alu Kurumba - dai Gurùmanai, gli antenati, ha invece rappresentato per questa comunità di raccoglitori di miele ed erbe medicinali, un mezzo espressivo per riscattare la loro identità e migliorare le loro condizioni economiche, attraverso un revival delle pitture rupestri che è allo stesso tempo “tradizione inventata” e tramite per rinnovare ed esperire l’illud tempus, il Tempo Mitico in cui avvennero un diluvio, storie di eroi inciviltori e battaglie.

Toikkanen Jarkko, University of Oulu & Tampere University“I feel fantastic”: Myths of Origins as Intermedial Experience in Social Media
People become aware of the world by way of experience, and experiences, either everyday or exceptional, are specific to the medium used in producing the experience. When something is experienced through the senses, in literature or another way of presenting such as social media, the intermedial experience is defined by its medium – what did you see, hear, or feel on reading, watching, or listening? The experience is a fact, irrespective of the sensory perception being based on something real or imagined – what did you think you saw, heard, or felt on reading, watching, or listening? In the social media environment, content can go unpredictably viral. Users come across something they respond to and an affective community begins to form around the original item – subject to sharing and remediation. In the process, authorship may become obscured as the users go on to disseminate the item, perhaps claiming the item was not original at all but rather a sample of found or adapted footage, the true original of which is nowhere available. The suspension of authorship results in a loss of origin that allows a new story, or myth, to be constructed about the item’s origin. “I Feel Fantastic” is a 2009 YouTube video clip that has been viewed 21 million times by January 2020. It shows an awkwardly animated female figure who sings a monotonous tune, telling the viewer that she feels fantastic. The clip is accompanied by a verbal caption in which the creation of the uncanny automaton is referred to the ancient myth of Pygmalion – the sculptor who sculpted his own perfect companion. What do we imagine the clip really to be about, through whose eyes are we watching it, and which myths of origin do we start spinning as evidence of intermedial experience in the social media environment?

van Alst Abigael, KU LeuvenThe Architecture of the World. A Cosmogonic Reading of Bruno Taut’s Der Weltbaumeister
As far back as medieval times, the construction of gothic cathedrals acknowledged the play of changing light and colour, setting buildings into a more encompassing relation with the cosmos. This premodern desire to build bridges between the inner spiritual realm and outer space finds many echoes in the utopian glass architecture of the modernist period. Embracing the cathedral’s spiritual value, and its capacity of incorporating other art forms, many utopian avant-garde architects took to the cathedral as a model.This paper will discuss one such case: the total work of art put forth by the German utopian architect Bruno Taut, who dreamt of creating a building reflecting the greater unity of the cosmos. To do so, he wrote a theatrical work called Der Weltbaumeister (The World Builder) in 1917, labelled as an “architecture-play for symphonic music”. In his play, he merges architecture with the arts of music, language, drawing, theatre and cinema. The Weltbaumeister depicts the emergence and transformation of an architectural form in the universe. It begins with the description of a gothic cathedral which grows out of cosmic chaos but suddenly collapses and splits into atoms. In space, a new star is formed: the cathedral star, representing the original nucleus of the world.Many critical contributions have stressed that the destruction of the gothic cathedral symbolises the dismissal of old architecture, which is then replaced by a new utopian architecture. Instead, this paper aims to read Taut’s play as a cosmogony by showing that the Weltbaumeister’s synesthetic cosmic architecture pictures the origins of life. Central to the cosmogonic interpretation of Taut’s work is the organic imagery, which is present throughout the text. Through the use of biological metaphors, the coming about of the cosmos is represented as an act of procreation. The gothic cathedral in such a reading appears as an unaccomplished yet necessary stage in the universe’s (pro)creation, leading to a new architectural form, capable of representing the origin of a unified cosmos.

Venturi Delporte Monica, Université Lyon 3 – Jean MoulinIl transumanesimo ovvero il Prometeo post-moderno? L’uomo, l’uomo enhanced, il post uomo nell’arte contemporanea
Tra le molte figure archetipiche che si celano dietro alpensiero transumanista, il mito di Prometeo è, senza alcun dubbio, quello dotato di maggior forza semantica. A sua volta creatore dell’uomo, ribelle all’autorità divina, pioniere delle scoperte scientifiche, paladino della specie umana, il titano incarna la natura demiurgica e il potere creatore del mito di cui il movimento transumanista si fa portatore. L’idealetransumanista sembra essere in effetti quello di ri-creare l’uomo prometeico, ovvero l’uomo inteso come essere libero dalle catene dell’incarnazione: la vecchiaia, la malattia e la morte -in definitiva i mali del mondo che Pandora ha sciaguratamente liberato dal suo vaso- ricorrendo a strumenti mutuati dall’universo delle nuove tecnologie e delle nuove scienze. Nelle arti, forme artistiche ibride, ai margini di diverse discipline come la scultura, la performance, la danza, le biotecnologie, l’informatica, sembrano avvicinarsi a tale sensibilità. In qual modo gli artisti transumanisti utilizzano questa “nuova grammatica” post-moderna? Attraverso quali elementi iconografici, tecnici, simbolici il trans o il post uomo si traduce nelle rappresentazioni artistiche? La nostra analisi, transdisciplinare e transculturale, intende rispondere a queste domande attraverso la lettura di alcune manifestazioni diartisti apertamente adepti o semplicemente vicini altransumanesimo: Orlan, plasmatrice del proprio corpoattraverso la chirurgia plastica, Neil Harbisson, primo cyborg, o ancora Marco Donnarumma e Margherita Pevere che si ibridano con rifiuti informatici e intelligenze artificiali.La nostra ricerca si pone dunque come un’esplorazione dell’arte transumanista, più sconosciuta e discreta rispetto al transumanesimo filosofico e tecno-scientifico. E se invece gli artisti transumanisti fossero, in virtù dell’essere artisti(demiurghi dell’immagine) e transumanisti (demiurghi del soggetto dell’immagine), e dunque capaci di generare simultaneità tra l’atto della rappresentazione e quello della creazione, dei Prometei al quadrato, ovvero dei Prometei “potenziati”?

Vergados Athanassios, Newcastle UniversityThe origins of time: on some ancient responses to Hesiod’s Theogony
In my paper I intend to explore some ancient responses on a paradox in Hesiod’s Theogony, an 8th/7th c. BC poem about origins that combines an account of the creation of the cosmos with a narrative on the birth of the gods and their succession in power. Even though the Theogony is a chronicle of time, beginning with what came to be protista (‘as the very first’), Hesiod does not include an abstraction ‘Time’ (Chronos) or ‘Eternity’ (Aion), although his divine world is populated by divinised abstractions (e.g., Eris = ‘Strife’, Metis = ‘Cunning Intelligence’ etc.). Hesiod, moreover, is keenly aware of time in the Theogony, witness his clever manipulation of the chronological arrangement of his narratives which adumbrates that Zeus teleologically obtained the supreme power and that his presence is eternal: the effects of Zeus’s benevolence or power are felt even at points in the story in which Zeus has not yet been born. While Hesiod resisted the possibility to abstract the notion of ‘Time’, other ancient thinkers did not: (i) Pherecydes (F60 Schibli) included Chronos among his first principles who later changed into Cronos and led a battle against Ophioneus. In this he resembles Pherecydes’ other principles, Zas and Chthonie, who acquire other names as the narrative unfolds (Zeus and Gaia respectively). (ii) The Orphics, too, included in some of their theogonies Chronos among the primordial principles, who is said to have given birth to an egg in Aither, from which Protogonus emerged. Their account of the succession of the gods resembles Hesiod’s to an extent. (iii) Finally, Chrysippus (SVF II 1087, 1088) interpreted Cronos as Chronos, an idea that found its way in the commentaries on the Th. (schol. ad 137, 459) and works such as Cornutus’ Epidrome (5.18–6.2 Torres). I will conclude that the above authors/texts are all voices in an on-going philosophical debate on the origins and understanding of time that begins with Hesiod and includes the Presocratics and Chrysippus.

Vittonatto Silvia, Université Savoie Mont Blanc

Remaking the Myth of the Deluge: A Cosmology for the Anthropocene
The paper focuses on the resurfacing of the myth of the flood as a distinctive trait of the fiction of the Anthropocene. The myth of the deluge is a crucial feature of both Western and Eastern cosmologies (Tanakh in the Book of Genesis, Epic of Gilgamesh, the Hindu Satapatha Brahmana and Matsya Purana, the Sumerian Eridu Genesis and so forth) and is in itself a prime example of comparative mythology in the perspective of World Literature. However, the last years have seen an unprecedented proliferation of fictional texts which engage with the idea of the flood, either as a result of extreme sea level rise due to climate change or as a form of divine retribution for the deranged human species. Therefore, contemporary fictional depictions of the flood draw from both the established tradition of the mythical motif and the authors’ first-hand understanding of the effects of anthropogenic climate change. For instance, in his Bangkok Wakes to Rain (2019), Pitchaya Sudbanthad describes the inundation of the Thai capital and the after-world which emerges after the old one is flooded. Authors thus re-imagine the flood through intertextuality with traditional sources and their own experience; the historical and transnational cultural significance of the myth and its present global relevance contribute to the redefinition of the myth itself and the creation of a new one. As a new world begins to arise from the environmental collapse of the current one, the flood becomes once again the symbol of an emerging new cosmology. The paper presents and discusses several examples from contemporary novels which portray the deluge, and shows how the flood myth is being re-imagined, re-worked and re-written in the light of ecological degradation and social instability, thus becoming a new, transnational, cosmological myth for the literature of the Anthropocene.

Voussad Saim, École Normale Supérieure de Bouzaréah (Algérie)La parole poétique dans L’arbre à dires de Mohamed Dib où comment se perpétue l’originaire
« …au moment où la parole s’arrête sur un cri, puis sur le silence qui suit le cri et que l’homme sidéré subit le souffle d’une bombe dont il n’entendra jamais l’explosion, entre alors en tenue de gala la Muette ». Cette phrase sur laquelle se clôt L’arbre à dires de l’algérien Mohamed Dib, Albin Michel, 1998, aurait pu très bien servir d’incipit à l’œuvre car elle restitue, sous le mode tragique, l’atmosphère qui a inspiré l’écriture du livre. Il y a lieu justement de rappeler qu’au moment où était paru le livre, l’Algérie était plongée dans l’horreur de ce que l’on a appelé depuis, la décennie noire, ( la période des années 90) où « la Muette », comme l’illustre la majuscule du mot, imposait avec son règne tyrannique sa domination, niant ainsi l’être dans son intégrité même. Il suffit cependant que l’on soit attentif à la parole poignante du narrateur pour constater que la mort n’est que le résultat d’une autre mort, plus insidieuse du fait qu’elle n’agit pas à découvert : celle qui frappe la « parole », en la figeant dans le cri avant de la réduire définitivement au silence. C’est là que se révèle toute la portée signifiante du titre : L’arbre à dires qui, d’emblée, semble poser comme une exigence la réhabilitation du « dire » dans sa dimension plurielle, en l’associant intimement à la figure de « l’arbre ». Cela non sans raison. Pourquoi, donc, l’arbre ? Voilà qui nous oriente précisément vers la problématique du colloque. Dans le chapitre « L’arbre à dires » qui va donner son titre au livre, il est question d’un dialogue, entre un père, campé dans le rôle de l’écrivain et sa fille Lyylie Belle et dont le thème central est une méditation sur l’écriture et la création. Comme en témoignent les sous-titres du chapitre (« Hiver », « Printemps », « Eté », « Automne ») autour desquels se construit la conversation, c’est bien la nature, qui par le truchement de l’enfant, sert de fond d’inspiration à la conscience poétique de l’écrivain comme si en renouant avec le langage cosmique, ce dernier cherchait à replonger dans l’élémentaire pour ressourcer sa parole dans l’originaire au sens que lui donne Mikel Dufrenne. D’où la fascination qu’exerce sur lui sa fille qu’il associe à son entreprise afin qu’elle l’aide d’une certaine façon à accomplir l’épreuve de la création. Aussi, même s’il a la maitrise de l’écriture, il ne peut cependant écrire que sous la dictée de l’enfant car contrairement à lui, grâce à son regard naïf et innocent, elle est dans un rapport direct avec le monde ; ce qui la rend de ce fait capable d’en capter « la résonance intérieur » (Kandinsky) : « Se posant sur les choses, son regard va au-delà même des choses, au-delà du bien et du mal, avec un naturel désarmant » (90). Du coup, ce n’est plus à l’adulte que revient le rôle d’enseigner les choses du monde mais à l’enfant dont le père dit suivre « l’exemple » en prêtant, à son tour, « toute [s]on attention » aux arbres. C’est pourquoi le père ne cherche aucunement à imposer sa vision à sa fille mais se laisse, au contraire, prendre volontiers et avec délice à ses questions. Il retrouve ainsi, l’espace d’une conversation, l’innocence du jeu, le gout du possible et les joies du rêve. La fille est, ici, le symbole même de l’enfance du monde dans le regard de laquelle le père sent « passe[r] tout le cosmos » (80). Pour reprendre Mikel Dufrenne, à travers le poète « c’est bien l’enfance qui s’exprime, mais moins une enfance singulière que l’enfance de l’humanité, une enfance présente en chacun de nous [1]». Le fait que la figure de l’enfant se dédouble dans celle de l’arbre ˗ il est question de « bouleau enfant » dans le texte˗ prend alors tout son sens comme si les deux ne faisaient qu’un. Plus qu’un objet contingent, le « bouleau » incarne « l’être des lointains » selon l’expression de Heidegger et participe donc du dire. C’est l’élément autour duquel se condense et prend figure la puissance du fond originel. Je me proposerais par conséquent, au cas où je venais à prendre part à vos travaux, de montrer comment l’écriture dibienne sollicite ce fond et en répercute à même son matériau l’écho lointain.
[1] M. Dufrenne, Le poétique, Puf, 1963, p. 130-131.
Walter Anke, Newcastle UniversityThe Gods as Founders in Valerius Flaccus’ Argonautica
Although Valerius Flaccus (ca AD 45-90) wrote an epic on the adventures of the Argonauts with a close eye on Apollonius’ Rhodius highly aetiological epic of the same title, Valerius includes strikingly few stories of origin in his work. The ones that he does include, however, have little to do with the Argonauts themselves, but usually feature the previous generation of Olympian gods, some of whom appear in a decidedly Hesiodic light. In my paper, I will explore how these divine foundations interact with the epic’s narrative agenda, and which values they project from the remote past into the present of the new Flavian age.

Weber Anne-Gaëlle, Université d'Artois"Hasard, déterminisme et naissance de la science géologique en France et en Angleterre au tournant des XVIIIe et XIXe siècles".
Il s'agira de montrer comme la science géologique cherche plus ou moins à se définir contre l'idée d'une cause première.